Per reagire alla guerra Usa-Cina, c’è solo un modo: accelerare il processo di integrazione per gestire meglio crisi, sviluppo e politiche
In vista delle elezioni di maggio, Il 2019 è cominciato con un’Europa molto più pessimista sul proprio futuro di quanto non fosse stata nell’anno appena concluso. Sarà per una forte contrazione del Pil, che porterà alcuni grandi paesi come l’Italia di nuovo a zero, dopo un paio di anni di timida crescita. Sarà per la frattura sempre più forte ed evidente tra classi dirigenti e classe media, che porta i gilet gialli in piazza e i 5 Stelle al Governo in Italia.
La nostra sensazione è però che l’incertezza generale che si respira nel mondo sia dovuta soprattutto ad atteggiamenti poco rassicuranti di alcuni grandi protagonisti. Mi riferisco in particolare a Stati Uniti e Cina, che il 1 marzo ricominciano una guerra che non possiamo definire solo commerciale, dopo una inutile tregua di qualche mese che avrebbe dovuto favorire un accordo che non c’è stato. I mercati esprimono preoccupazione per gli impatti di questo confronto, che ha già mostrato quanto può essere duro, giungendo finanche a privazioni della libertà personale, come quella che ha riguardato la CFO del gruppo cinese Huawei.
E allora come reagiremo in Europa? Abbiamo un solo modo: usare le prossime elezioni europee per promuovere parlamentari e leader che sappiano accelerare il processo di integrazione, per gestire meglio crisi e sviluppo, shock economici e crescita, politica estera e della difesa.
Non possiamo più fermarci, dobbiamo procedere verso un’Unione fiscale immediatamente, presupposto fondamentale per passare anche a un’Unione politica. Senza gli Inglesi, abbiamo un’occasione unica per aumentare il bilancio comunitario dal risicato 1% del Pil europeo a un più consistente 2 o 3%, che consentirebbe a Bruxelles, per esempio, di condurre necessarie politiche anticicliche, sostenendo l’azione dei Governi nazionali nei difficili contesti economici che stiamo sperimentando da più di un decennio. I bilanci di Stati federali come Stati Uniti, Brasile o Australia consentono il migliore assorbimento sia dei cosiddetti shock aggregati sia di quelli che colpiscono solo alcuni Stati. Ad esempio, un calo di 1 dollaro del reddito in Texas innesca 40 centesimi di trasferimenti federali in più da Washington verso Dallas; una diminuzione di 1 euro del reddito in Spagna, invece, comporta il trasferimento di meno di 1 centesimo da Bruxelles a Madrid.
Una governance così accentrata, dunque, non ci avrebbe consentito maggiore efficienza nella gestione della crisi greca? E di quelle portoghese, spagnola, irlandese e italiana?
Certo, bisogna negoziare con Berlino. Facciamolo! Sedendoci seriamente a un tavolo, gli argomenti non mancano, anche nell’interesse della Germania. La produzione industriale tedesca non è forse diretta per due terzi ad altri Paesi europei? E non è dunque anche interesse tedesco conferire maggiore competitività e sostenibilità alle economie dei paesi acquirenti dei prodotti germanici, attraverso un accentramento delle politiche fiscali, magari dirette da un Ministro dell’Economia europeo, di nazionalità tedesca?
Ora che Londra è fuori, la Francia resta l’unico Paese con armi nucleari. È questo il momento per un Presidente europeista come Macron di passare alla storia, mettendo a disposizione dell’Europa il proprio arsenale nucleare e il proprio seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in cambio di una leadership europea in materia di Difesa. Tutti noi europei saremmo pronti ad accettare un Ministro della Difesa europeo di passaporto francese, a fronte di un atto di generosità politica così rilevante.
Siamo tutti con il fiato sospeso, in attesa dei risultati del 26 maggio, ma soprattutto in attesa di passi decisivi verso un’Europa federale.
@GiuScognamiglio
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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Per reagire alla guerra Usa-Cina, c’è solo un modo: accelerare il processo di integrazione per gestire meglio crisi, sviluppo e politiche