I due Paesi non sembrano capaci di rinnovare la loro classe dirigente: incastrati nel karma della sicurezza, sono immobilizzati in vecchie leadership storiche che monopolizzano la vita politica
Con una media di una elezione ogni otto mesi, il prossimo 1° novembre Israele tornerà alle urne per la quinta volta in tre anni. Sia gli attori che lo scenario saranno gli stessi. Da un lato la destra di Benjamin Netanyahu, dall’altro, tutto il mondo politico israeliano che, nell’ultimo anno, ha tentato di governare insieme proprio in chiave anti Bibi.
Si può dire con certezza che oramai Israele le ha provate tutte, ma non riesce ad avere un Governo stabile, a causa del sistema elettorale che vede una grossa frammentazione politica. Con un sistema proporzionale che deve assegnare 120 seggi, la soglia di sbarramento al 3,25% pare, stando alla storia recente israeliana, troppo bassa per consentire una vittoria sicura di un partito o di uno schieramento, tale da dargli almeno i 61 voti necessari per ottenere la maggioranza e governare il paese.
Gli ultimi Governi
Le ultime legislature, l’ultima in particolare, uscita dalle elezioni e dai giochi politici del 23 marzo dell’anno scorso, hanno dimostrato come lo scarto o la decisione di un solo parlamentare possa portare alla dissoluzione del governo. L’ultimo esecutivo a guida Naftali Bennet, con Yair Lapid a fare da Primo Ministro a rotazione, è stato sconfitto dopo che un parlamentare prima e un altro dopo hanno abbandonato la maggioranza, non votando leggi. Una di queste riguardava la possibilità di portare il pane lievitato negli ospedali durante le festività ebraiche di Pasqua; l’altra era la necessità di estendere ai coloni la legge israeliana. I coloni in Cisgiordania hanno uno status legale parificato a quello israeliano, laddove vi è invece un trattamento diverso per i Palestinesi che vivono negli stessi luoghi. Questo avviene sulla base di regolamenti di emergenza che Israele ha messo in atto nel 1967 e che devono essere rinnovati periodicamente. L’attuale regolamento sarebbe scaduto il primo luglio: poiché il Governo non ha potuto raccogliere consensi per approvare il rinnovo, l’unica alternativa era appunto quella di sciogliere il Parlamento. In tal modo i regolamenti sono stati automaticamente prorogati per sei mesi, perché la Knesset si è sciolta prima del loro rinnovo.
Il Governo discioltosi incorporava partiti molto diversi tra loro, dalla sinistra estrema alla destra, passando per gli arabi. Questi si erano uniti con il solo ideale comune di impedire all’allora primo ministro Netanyahu di mantenere il potere dopo 12 anni consecutivi al timone di Israele. La coalizione ha cercato di mettere da parte l’ideologia e concentrarsi su questioni socioeconomiche e di governance, ma le differenze erano notevoli. E alla fine, proprio le questioni nazionaliste e ideologiche sono riemerse, spaccando la coalizione e rimandando Israele al voto.
Come per le elezioni dell’anno scorso, anche durante queste l’argomento principe è la sicurezza. Poco più di un mese dopo le elezioni dell’anno scorso, scoppiò il violento conflitto con Gaza, l’operazione “Guardian of the walls”, che vide l’esercito israeliano confrontarsi con Hamas. In quella occasione, la scintilla che fece esplodere il conflitto fu più politica, legata agli sgomberi forzati di palestinesi da Gerusalemme est, che portarono a scontri anche sulla Spianata delle Moschee.
Un nuovo pericolo: la Jihad islamica palestinese
Quest’anno, in piena campagna elettorale, una nuova operazione su Gaza, con altra origine e contro altri interlocutori. A “incrociare i razzi” con Israele, è stata la Jihad islamica palestinese. Un gruppo terrorista con base a Gaza e agganci in Libano con Hezbollah e in Iran, dai quali riceve aiuti militari. Non ha responsabilità di Governo come Hamas, a cui contende la palma di difensore degli interessi palestinesi. Lo scontro è nato dopo che l’esercito israeliano ha arrestato a Jenin, in Cisgiordania, Bassam al Saadi, comandante della Jihad Islamica in Palestina. Jenin è la città cisgiordana, da sempre una spina nel fianco per Israele. Da qui, infatti, provengono la maggior parte dei responsabili degli attentati che nei mesi scorsi in undici giorni hanno ucciso 14 persone in Israele. In risposta l’esercito ha organizzato numerose azioni in Cisgiordania contro terroristi, fiancheggiatori e presunti tali, che hanno fatto una trentina di vittime. A ordinare alcuni di questi attacchi contro le città israeliane, eclatante quello nel centro di Tel Aviv, proprio Bassam al Saadi. Durante uno di questi raid dell’esercito israeliano a Jenin, l’11 maggio scorso ha perso la vita la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, uccisa probabilmente da un militare dell’esercito israeliano che, con il suo reparto, era impegnato in uno scontro con dei militanti palestinesi. Subito dopo l’arresto di al Saadi, che comunque è una vecchia conoscenza delle carceri israeliane, la Jihad islamica aveva minacciato violente ripercussioni. Era cominciata una mediazione con l’Egitto e si attendeva una risposta israeliana, che però l’esecutivo ha pensato bene di anticipare con un attacco preventivo di precisione su Gaza, uccidendo, tra gli altri, Taysir al Jaabari, uno dei leader del movimento che, secondo informazioni di intelligence israeliane, stava pianificando attacchi nel paese, in risposta all’arresto di al Saadi.
Se l’anno scorso a guidare l’operazione su Gaza era stato Benjamin Netanyahu, quest’anno è stato il premier a rotazione Yair Lapid, centrista, a decidere di attaccare la Striscia. Una decisione non da poco, per una serie di ragioni. La prima: l’interventismo è sempre stato appannaggio della destra che ha fatto anche della sicurezza una delle bandiere elettorali. La seconda: Lapid e il suo co-premier Naftali Bennett guidavano una coalizione nella quale gli arabi avevano un notevole peso. La terza: il ministro della difesa Benny Gantz è l’uomo che nel giro di un anno ha incontrato diverse volte Abu Mazen sia in Israele che nei Territori. Ma la ferita lasciata aperta dai morti fatti nel cuore delle città israeliane ha spinto il Governo di Lapid ad agire. La sicurezza è da sempre uno degli argomenti verso il quale gli elettori israeliani sono più sensibili. Con gli ultimi sondaggi che danno in testa Benjamin Netanyahu, da sempre favorevole alla linea dura con i palestinesi, anche l’esecutivo di centro destra dell’attuale premier ha voluto, secondo alcuni, tenere dritta la barra sulla faccenda. Che la sicurezza sia argomento principe in Israele, anche elettorale, è fatto notorio. Dopotutto Gantz è un ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. Dalla fondazione dello stato di Israele, su 21 capi di Stato maggiore (escludendo l’attuale in carica) ben 14, oltre i due terzi, sono scesi in politica; di questi, due (Yithak Rabin e Ehud Barak) sono anche stati Primo Ministro e sei invece Ministro della Difesa (Moshe Dayan, Yithak Rabin, Ehud Barak, Shaul Mofaz, Moshe Ya’alon and Benny Gantz). Dal 1997 ad oggi, in ogni legislatura, c’è stata la media di sei tra generali ed ex capi di Stato maggiore.
Tra la fine della legislatura e l’inizio dello scontro con la Jihad Islamica, c’è stato anche il tempo di ospitare, nella sua prima visita da quando vive nella Casa Bianca, Joe Biden. Visita che non ha smosso alcunché, non ha scalfito equilibri, non ha riavvicinato parti. Eppure l’amministrazione Biden aveva promesso sin dall’inizio un cambio di rotta nei confronti della Palestina rispetto all’amministrazione precedente. E invece nessuna delle promesse fatte è stata portata a termine: il consolato a Gerusalemme non è mai stato aperto, così come l’ambasciata a Washington chiusa da Trump. La cosa ha ovviamente aumentato il senso di frustrazione dei palestinesi, come la decisione dell’Arabia Saudita di riaprire cieli agli israeliani, scelta che qualcuno vede come il preludio al riconoscimento reciproco e possibile ingresso negli accordi di Abramo. Dopotutto anche la Turchia ha riallacciato i rapporti con Israele e sia Riad che Ankara mirano al controllo della Spianata delle Moschee, terzo luogo più sacro dell’Islam, ora gestito da una fondazione giordana. I palestinesi navigano a vista. Abbas, 87enne e malato, non lascia il potere. Tra i palestinesi, almeno stando ai sondaggi, l’80% non lo vuole, lo considera un agente degli israeliani. Ma nessuno si muove per sloggiarlo. Oramai governa dal 2006 senza opposizione, che lui annienta in ogni mezzo. Come, pare oramai annientato il sogno di uno stato per i palestinesi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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I due Paesi non sembrano capaci di rinnovare la loro classe dirigente: incastrati nel karma della sicurezza, sono immobilizzati in vecchie leadership storiche che monopolizzano la vita politica