Nel suo libro “L’avvocato dell’atomo”, l’autore ridimensiona lo spettro del nucleare e lo include tra le fonti di energia da considerare nell’ambito della lotta al cambiamento climatico
“Se al termine della lettura non sarò riuscito a convincervi del fatto che il nucleare andrebbe quantomeno riconsiderato, nell’ambito della lotta al cambiamento climatico, spero almeno di avervi vaccinati contro chi parla di energia in maniera troppo semplicistica”. Le parole del fisico Luca Romano ben esemplificano l’intento sotteso alla scrittura del saggio L’avvocato dell’atomo (Fazi Editore), il cui titolo riecheggia quello della pagina Facebook – aperta il 6 aprile 2020, durante il primo lockdown – che ha riportato l’energia blu al centro del dibattito pubblico italiano, tentando così di scardinare assunti troppo superficiali o smaccatamente errati. Laureato in fisica presso l’Università di Torino, alle spalle un master in Giornalismo scientifico e Comunicazione della Scienza conseguito allo IUSS di Ferrara, l”avvocato’ Romano (“Ecco, io non sono Saul Goodman: con la parlantina me la cavo, ma mi faccio fin troppi scrupoli etici”) affronta, analizza e disseziona sulle pagine del testo quesiti e capi d’accusa mossi contro il nucleare, dalla (presunta) pericolosità insita in tale tecnologia allo smaltimento delle scorie radioattive, dai rischi di proliferazione militare ai limiti delle rinnovabili. “Il bisogno delle persone – scrive l’autore – di vedere le cose necessariamente bianche o nere è il più grande nemico di questo libro. La tesi di fondo, infatti, non è che l’energia nucleare sia la panacea di tutti i mali, la soluzione universale o il miglior modo possibile di generare energia elettrica: la tesi di questo testo è che il mondo energetico è incredibilmente complesso, e ridurre il nucleare a “le scorie”, “costa troppo” e “ommioddio Černobyl” è estremamente riduttivo, se vogliamo pensare di diminuire la nostra dipendenza dai combustibili fossili in maniera seria. Questo include anche il dover introdurre delle scale di grigio per personaggi, ideali, giornali, partiti politici o associazioni che fino a oggi sono sembrati immacolati, ma che su questo tema sono invece usciti dal sentiero”.
Luca Romano, cosa l’ha spinta a prendere le difese del nucleare? Ha rilevato una diffusa disinformazione al riguardo?
Assolutamente sì. Negli anni mi sono reso conto che di questo argomento (ma non solo) sui media generalisti si parla poco e malissimo. Quando ho iniziato questo progetto ovviamente non pensavo che sarei diventato una delle principali fonti di informazioni scientifiche su questo tema, ma ce n’era decisamente bisogno. Purtroppo ancora oggi il mio lavoro raggiunge solo una piccola parte del pubblico che non frequenta i social network: la TV e i giornali continuano ad essere dominati da opinionisti con una scarsissima conoscenza dell’argomento e molti bias ideologici, che spesso si esprimono senza contraddittorio ripetendo slogan datati. Questo, comunque, non è un problema solo del nucleare: in generale c’è bisogno di un rinnovamento del sistema televisivo e giornalistico in Italia, perché oggi l’offerta informativa è fatta e pensata unicamente per la fascia più anziana della popolazione.
Chiariamo un punto importante: qual è la dose minima di radiazioni assorbite dal corpo umano associabile a un rischio effettivo per la salute?
Questa domanda richiede un piccolo preambolo: l’attività radiologica di una sorgente si misura generalmente in Becquerel (Bq), che è un’unità di misura che indica semplicemente il numero di decadimenti radioattivi al secondo. Per calcolare la dose efficace trasmessa ad un tessuto organico occorre utilizzare dei fattori di conversione che tengono in considerazione la tipologia di radiazione emessa, l’energia della radiazione e la modalità di irraggiamento (dall’esterno o dall’interno del corpo umano). Ad esempio, le particelle alfa trasportano più energia, ma sono poco penetranti, dunque sono potenzialmente pericolose in caso di irradiazione interna (dovuta, ad esempio, a ingestione o inalazione di sostanze radioattive), ma del tutto innocue in caso di sorgente esterna. La dose efficace, che si misura in Sievert (Sv), è un parametro utile per stimare il potenziale danno biologico. Ovviamente resta una stima, perché la risposta del corpo umano alle radiazioni varia da individuo a individuo, ma ad oggi possiamo dire che non si hanno evidenze di effetti sulla salute umana per dosi inferiori a 100 mSv/anno (milli-Sievert all’anno). Al di sopra di questa soglia si ha un incremento (marginale, che cresce con la dose assorbita) della probabilità di contrarre tumori sul lungo termine. Gli effetti di un avvelenamento acuto da radiazioni invece richiedono dosi molto più elevate, dell’ordine delle centinaia di mSv all’ora. Per fortuna la radioattività con cui abbiamo a che fare quotidianamente si aggira su valori molto più bassi: i cibi più radioattivi che si trovano in commercio (banane e noci brasiliane) danno dosi dell’ordine della frazione di micro-Sievert − servirebbero diecimila banane al giorno per un anno per arrivare ad avere effetti misurabili sulla salute dovuti alla radioattività; una radiografia dà una dose di pochi microSv, mentre con una TAC si arriva a pochi mSv. In generale, la dose media che riceviamo dall’ambiente si aggira tra i 2 e i 3 mSv/anno e il limite di esposizione per il pubblico generale alla radioattività artificiale è di 1 mSv/anno. Alcune categorie professionali sono esposte a dosi più alte (ad esempio i piloti d’aereo, che passano molto più tempo in quota e sono dunque maggiormente esposti alla radiazione cosmica: per loro il limite fissato dai regolamenti internazionali è di 20 mSv/anno), ma ad oggi non risulta che queste categorie siano maggiormente affette da malattie oncologiche o comunque associabili alla radioattività.
Trova che l’energia nucleare possa costituire una scelta migliore rispetto ad altre fonti energetiche, dai combustibili fossili alle rinnovabili?
Dipende dal contesto, il mondo energetico è complicato. Però in generale occorre affiancare alle rinnovabili, che non sono disponibili sempre (il solare e l’eolico) o non sono disponibili ovunque (idroelettrico e geotermico), una fonte continua e a basse emissioni, e da questo punto di vista il nucleare resta la migliore opzione a nostra disposizione. Chiaramente, la quantità di centrali nucleari necessarie andrà ponderata in base alla disponibilità geografica di fonti rinnovabili: in Italia, ad esempio, abbiamo una discreta disponibilità per quanto riguarda i bacini idroelettrici, soprattutto sull’arco alpino, ma la maggior parte dei bacini utili è già sfruttata; abbiamo una discreta insolazione, soprattutto al sud Italia, il cui potenziale andrebbe aumentato potenziando le connessioni; siamo invece messi male per quanto riguarda l’eolico, dal momento che la dorsale alpina blocca le correnti continentali, il che ci lascia come unica opzione le turbine offshore. Combinando i numeri delle rinnovabili con le previsioni di evoluzione della domanda probabilmente sarebbe sufficiente coprire il 30% del fabbisogno di elettricità col nucleare per portare a termine gli obiettivi di decarbonizzazione.
A suo avviso, il potenziale catastrofico di un eventuale incidente nucleare renderebbe tale tecnologia un rischio inaccettabile?
Il potenziale catastrofico di un incidente nucleare oggi è inferiore a quello di una diga che crolla o di un incidente in un impianto chimico. E anche l’impatto degli incidenti passati (soprattutto Fukushima) è stato largamente esagerato dalla stampa, tanto che molta gente oggi ignora che a Fukushima non è morta neanche una persona per le radiazioni. Il nucleare in questo ambito soffre di quello che si chiama “paradosso dell’eccellenza”: gli incidenti nucleari sono rarissimi, ma proprio per questo vengono ricordati da tutti, tanto che chiunque saprebbe citare quali sono stati i più importanti. Viceversa, gli incidenti della filiera dei combustibili fossili (petroliere che si rovesciano, raffinerie che prendono fuoco, crolli o esplosioni nelle miniere di carbone, etc.) sono talmente comuni che ci abbiamo fatto l’abitudine, per non parlare poi delle morti da inquinamento. Nell’anno 2022 la maggior parte della prefettura di Fukushima è stata nuovamente dichiarata abitabile: dal 2011 al 2022 è stato giudicato che la radioattività ambientale più elevata della media rappresentava un rischio troppo grande. Ma se la prefettura di Fukushima non fosse mai stata evacuata, in questi 11 anni sarebbe comunque morta meno gente per la radioattività rispetto a quanta ne uccide l’inquinamento ogni giorno a Tokyo, solo che i morti da inquinamento abbiamo deciso che sono per qualche motivo più accettabili.
Quali potrebbero essere le conseguenze del peggior incidente nucleare possibile? E la frequenza con la quale potrebbe verificarsi un danno al nocciolo?
I reattori moderni hanno robusti edifici di contenimento e sistemi di sicurezza molto ridondanti. Il peggior caso possibile potrebbe essere una situazione simile a quella di Fukushima, dove si ha la fusione del nocciolo, ma senza danni all’ambiente o alla salute delle persone. Parliamo comunque di eventi rarissimi. Gli enti regolatori internazionali, che controllano e approvano ogni step di ogni progetto di reattore nucleare nel mondo, considerano, per la generazione attualmente sul mercato (la cosiddetta “terza generazione avanzata”), che un incidente con danno al nocciolo possa capitare con una frequenza che va da 10 -5 a 10 -7 eventi all’anno. In altre parole, per i reattori costruiti oggi si valuta che un incidente grave possa capitare una volta ogni 100.000 anni nella stima più pessimistica, una volta ogni 10 milioni di anni nella stima più ottimistica. Anche ammesso che un tale incidente si verificasse, vi sono ancora diverse barriere che separano una fusione del nocciolo da una contaminazione dell’ambiente esterno. Le centrali nucleari oggi sono letteralmente progettate per spegnersi in sicurezza anche nell’eventualità in cui tutti gli operatori cospirassero per provocare un incidente radiologico.
Qual è il rischio di contaminazione ambientale in relazione allo smaltimento di scorie nucleari?
In tutta la storia del nucleare civile questo evento non si è mai verificato (a differenza del nucleare militare o di tecnologie nucleari usate in medicina). Quindi direi che il rischio è prossimo allo zero. Si tratta di un non-problema: oggi nel mondo produciamo circa 10.000 tonnellate di scorie nucleari all’anno. Possono sembrare tante, ma in realtà si tratta di quantità estremamente modeste e per questo facili da tracciare e da gestire. Basti pensare che, solo in Europa, ogni anno produciamo 100 milioni di tonnellate di rifiuti tossici, molti dei quali estremamente pericolosi, e nessuno che non sia addetto ai lavori sa realmente come vengono trattati e smaltiti. Tutte le scorie nucleari prodotte nel mondo nella storia del nucleare civile riempirebbero un campo da calcio fino ad un’altezza di 6 metri. Trovare dei siti adeguati per lo stoccaggio è più un problema politico (occorre vincere la sindrome di NIMBY delle comunità locali) ed economico (occorre investire per un deposito che impiegherà secoli a riempirsi) che un reale problema ingegneristico o fisico.
Cosa si intende per riprocessamento?
Il riprocessamento è il recupero di isotopi fissili potenzialmente utili (soprattutto il Plutonio) dal combustibile esausto di un reattore nucleare. I paesi che oggi adottano questa pratica sono pochi (Francia, Russia, Giappone, Cina), perché è un procedimento costoso rispetto alla quantità di Plutonio riciclabile, soprattutto col prezzo dell’Uranio “vergine” che è ancora abbastanza basso sul mercato. Tuttavia, con l’avvento dei reattori di quarta generazione, sarà possibile recuperare e “bruciare” anche quegli isotopi a lunga emivita che oggi costituiscono la parte più problematica delle scorie nucleari. A parità di energia, i reattori di quarta generazione consumeranno dunque meno materia prima, producendo quindi meno rifiuti, e questi ultimi avranno una durata molto più breve.
Nel 2011 gli italiani si sono pronunciati, votando il quesito referendario numero 3, contro la produzione nel territorio nazionale di energia nucleare: un’occasione persa?
Sì, e ne stiamo pagando le conseguenze oggi, con le bollette alle stelle e un’esposizione tra le più alte in Europa alla dipendenza dalle forniture russe di gas, per fortuna in parte attenuata dalle politiche del governo Draghi. Se nel 2011 avessimo iniziato i lavori di costruzione di 6 reattori nucleari EPR, come previsto originariamente dal memorandum firmato con la Francia, oggi probabilmente almeno un paio sarebbero attivi, e ogni reattore sostituisce oltre un miliardo di metri cubi di gas all’anno solo per quanto riguarda la produzione di elettricità. Se a questo aggiungiamo la possibilità di utilizzare il calore di scarto per fare teleriscaldamento, i benefici aumentano ulteriormente. D’altronde, non è un segreto che i paesi che si sono ritrovati maggiormente esposti al ricatto russo sono stati proprio quelli che hanno abbandonato il nucleare: Italia, Germania ed Austria.
Completata la fusione nucleare presso la National Ignition Facility del Lawrence Livermore National Lab: quali prospettive si schiudono?
Dal punto di vista energetico, nessuna: gli esperimenti del NIF non sono mai stati orientati alla produzione di energia elettrica. Si tratta di esperimenti per il controllo delle reazioni nucleari tramite laser, che hanno applicazioni fisiche e militari molto importanti, ma non energetiche. La fusione a confinamento inerziale, da questo punto di vista, è ancora molto indietro. Arriverà prima quella a confinamento magnetico (ITER), ma ci vorranno ancora decenni, e bisognerà risolvere alcuni problemi non indifferenti, tra cui quello della produzione di Trizio, uno degli ingredienti chiave per la fusione: il Trizio in natura è praticamente inesistente, e produrlo è incredibilmente costoso. Con ITER si sperimenteranno dei moduli per cercare di produrlo dalla fissione del Litio-6, ma occorre che il processo sia straordinariamente efficiente. Altri problemi da non sottovalutare sono l’infragilimento dei materiali del contenimento, causato dal bombardamento neutronico, e la gestione dello stress termico su alcune componenti. Ovviamente il risultato del NIF è straordinariamente importante dal punto di vista scientifico, ma è sbagliato attendersi soluzioni tecnologiche a breve termine.
Riguardo il problema della nostra dipendenza energetica da altri Paesi, drammaticamente rimarcata dall’attuale conflitto in Ucraina, ritiene che il ricorso al nucleare civile potrebbe rappresentare una valida soluzione?
Sì. Il prezzo dell’energia nucleare dipende solo per il 2% dal prezzo dell’Uranio e tra i principali produttori di Uranio nel mondo vi sono due democrazie come Canada e Australia, per questo il nucleare garantisce stabilità di prezzi e non mette nelle condizioni di dipendere da paesi autocratici. Inoltre, l’Uranio è una risorsa abbastanza ben distribuita sulla crosta terrestre ed è 40 volte più abbondante dell’argento, per cui un aumento dei prezzi renderebbe conveniente l’estrazione in paesi dove oggi non si estrae (o non si estrae più) per motivi economici, e questo contribuisce a tenere i prezzi sotto controllo. In futuro, le risorse fissili si potranno ottenere anche dal combustibile riciclato (coi reattori di quarta generazione) o dall’acqua di mare (piccole quantità di uranio sono sciolte nell’acqua dell’oceano e sappiamo già come filtrarle: oggi questo procedimento è più costoso rispetto all’estrazione in miniera, ma un domani potrebbe diventare conveniente). Se tutto questo non dovesse bastare, è possibile anche sfruttare il Torio, un altro elemento radioattivo che, nelle giuste condizioni, può essere trasmutato in un isotopo fissile. Il Torio è 3-5 volte più abbondante dell’Uranio nella crosta terrestre, ma la ricerca sui reattori al Torio è iniziata più tardi, e quindi non è ancora un’alternativa economicamente competitiva; resta comunque una risorsa strategica che mette al riparo da speculazioni sul prezzo dell’Uranio.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
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