Amnesty International accusa il modello di business di Meta e l’algoritmo che viene utilizzato. L’azienda basa infatti i propri guadagni sull’engagement, anche quando questo è portato da contenuti apertamente violenti.
Facebook avrebbe avuto un ruolo cruciale nella diffusione delle violenze in Etiopia, durante la guerra civile tra il potere centrale e i gruppi tigrini. Lo evidenzia Amnesty International, con un rapporto pubblicato il 31 ottobre. Nel documento, l’organizzazione non governativa spiega il coinvolgimento di Meta – la compagnia che possiede Facebook – nelle violenze avvenute nel Paese dell’Africa orientale.
Per due anni, fino al novembre del 2022, l’Etiopia è stata attraversata da un violento conflitto interno tra il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) e il governo federale di Addis Abeba, guidato dal primo ministro Abiy Ahmed. Il TPLF, che è allo stesso tempo una formazione politica e un gruppo paramilitare, era stato gradualmente emarginato dal potere centrale a partire dall’insediamento del nuovo premier, cinque anni fa. A novembre 2020, i dissidi politici erano degenerati in una vera e propria guerra, che era cominciata con un’offensiva del gruppo tigrino ed era poi proseguita con una forte repressione governativa. Esattamente un anno fa, i due schieramenti avevano infine trovato un accordo per il cessate il fuoco, a cui aveva fatto seguito una parziale normalizzazione dei rapporti e della situazione politica.
Il conflitto si era distinto per un forte grado di violenza, che aveva attirato l’attenzione del resto del mondo e che era spesso stata incanalata in schemi etnici. I tigrini, che corrispondono a circa il 6% della popolazione etiope e risiedono soprattutto nel nord del Paese, erano stati considerati almeno in parte colpevoli per la sollevazione del TPLF contro Addis Abeba. Ed erano stati quindi presi di mira negli anni di guerra nelle regioni centrali e meridionali, dove altri gruppi sono maggioritari.
Secondo Amnesty International, Facebook avrebbe contribuito alle violazioni dei diritti umani avvenute in Etiopia. E lo avrebbe fatto in particolare non intervenendo in maniera sufficiente o adeguata per fermare gli individui e i post che contribuivano alla creazione di un clima d’odio.
La piattaforma è infatti estremamente popolare nello stato africano, dove rappresenta il social media più utilizzato. Ha un ruolo importante anche nella diffusione delle notizie, venendo utilizzata come fonte di informazioni da una parte della popolazione. Durante la guerra, tuttavia, questo ha fatto sì che Facebook costituisse un mezzo privilegiato per la propaganda, da entrambe le parti.
Significativo è il caso di Meareg Amare. Professore etiope di etnia tigrina, Amare era stato preso di mira su Facebook da numerosi post che sottolineavano le sue origini e lo accusavano di essere un sostenitore del TPLF. Tra l’altro, i post mostravano una foto dell’uomo, fornendo informazioni relative al suo posto di lavoro e al suo domicilio. Il 1 novembre 2021, Amare è stato ucciso da alcuni uomini armati, che lo avevano seguito nel tragitto dal lavoro a casa.
“Meta poteva e doveva eliminare il contenuto una volta che questo era stato segnalato – ha detto alla BBC Alia Al Ghussain, ricercatrice di Amnesty e tra le autrici del rapporto -. Sappiamo che il gruppo era a conoscenza dell’esistenza di questi post e non ha agito abbastanza in fretta per limitarli. Questo ha avuto conseguenze estremamente serie, tragiche”.
Le accuse rivolte a Meta, categoricamente respinte dal gruppo guidato da Mark Zuckerberg, sono ancora più degne di nota se si considera che non è la prima volta che il gruppo è criticato per la gestione dei suoi social nelle situazioni di conflitto. Lo scorso anno, la stessa Amnesty aveva accusato Facebook di aver contribuito alla diffusione della campagna d’odio contro i rohingya, portando ad una pulizia etnica e a migliaia di omicidi, torture e stupri.
Ad essere messo sotto la lente di ingrandimento è in particolar modo il modello di business seguito da Meta e l’algoritmo che viene utilizzato. L’azienda basa infatti i propri guadagni sull’engagement, anche quando questo è portato da contenuti apertamente violenti. “Ma questo è estremamente dannoso per i diritti umani – spiega Al Ghussain – lo abbiamo visto in Myanmar, lo stiamo vedendo di nuovo in Etiopia e non dobbiamo vederlo in un terzo stato prima che vengano prese delle azioni serie”.
Facebook avrebbe avuto un ruolo cruciale nella diffusione delle violenze in Etiopia, durante la guerra civile tra il potere centrale e i gruppi tigrini. Lo evidenzia Amnesty International, con un rapporto pubblicato il 31 ottobre. Nel documento, l’organizzazione non governativa spiega il coinvolgimento di Meta – la compagnia che possiede Facebook – nelle violenze avvenute nel Paese dell’Africa orientale.
Per due anni, fino al novembre del 2022, l’Etiopia è stata attraversata da un violento conflitto interno tra il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) e il governo federale di Addis Abeba, guidato dal primo ministro Abiy Ahmed. Il TPLF, che è allo stesso tempo una formazione politica e un gruppo paramilitare, era stato gradualmente emarginato dal potere centrale a partire dall’insediamento del nuovo premier, cinque anni fa. A novembre 2020, i dissidi politici erano degenerati in una vera e propria guerra, che era cominciata con un’offensiva del gruppo tigrino ed era poi proseguita con una forte repressione governativa. Esattamente un anno fa, i due schieramenti avevano infine trovato un accordo per il cessate il fuoco, a cui aveva fatto seguito una parziale normalizzazione dei rapporti e della situazione politica.