Col calo del prezzo del petrolio è chiaro chi vince e chi perde, ma i mercati finanziari sono confusi.
Nella seconda metà del 2014, una novità sorprendente è stato il semi-crollo del prezzo internazionale del petrolio. Attestatosi, dopo il 2011, sui 100-120 dollari al barile, da luglio scorso il prezzo di riferimento del greggio Brent ha visto un calo più o meno costante ed è sceso sotto il tetto dei 50 dollari al barile.
La situazione non è senza precedenti. Nel 2009 il petrolio era arrivato a 50 dollari al barile, e dalla prima crisi energetica del 1973/74 il prezzo internazionale dell’oro nero ha subito più volte forti oscillazioni. Come tutto in un mercato libero (o semilibero), il prezzo del petrolio riflette domanda e offerta. Dalla “grande recessione” del 2008, la domanda di petrolio e di altre fonti di energia ha rallentato la sua espansione, soprattutto perché la crescita dei mercati emergenti e relativamente inefficienti dal punto di vista energetico si è contratta. Intanto, la produzione globale di energia è aumentata in modo significativo, per via della rivoluzione legata al petrolio di scisto negli Usa.
C’è da stupirsi che fino a metà 2014 i prezzi del petrolio siano rimasti così alti, ma molti attori del mercato hanno sperato che l’Arabia Saudita annunciasse tagli nella produzione, agendo, come al solito, da swing-producer. E, mentre i mercati attendevano questa mossa, i prezzi sono rimasti alti, stimolando ulteriore produzione da parte di produttori marginali, mentre le scorte eccedenti venivano stoccate.
Infine, l’estate scorsa, mentre la domanda di energia si attenuava ancora di più, la riduzione del prezzo del petrolio prese l’avvio e quando l’Opec, che controlla circa il 40% del petrolio mondiale, nel suo meeting di novembre decise di mantenere immutata la produzione, non restò che una sola direzione: una veloce discesa.
Se è sciocco azzardare previsioni, si può però affermare con una certa sicurezza che un’inversione rapida e consistente dei prezzi sembra improbabile.
La ripresa globale è troppo lenta per innescare un forte aumento della domanda e, seppure in molte zone i prezzi siano crollati al di sotto del costo marginale della produzione, abbandonarla è un processo costoso e avverrà solo per gradi. Un taglio brusco alle forniture dovrebbe nascere da un disastro geopolitico in Medio Oriente, o da una decisione politica dell’Arabia Saudita, ma i massimi esperti non prevedono né l’uno né l’altra.
Data l’opinione generalmente condivisa che il prezzo del petrolio resterà relativamente basso, è strano vedere i mercati finanziari – e molti commentatori – così confusi sulle implicazioni della cosa.
Abbiamo ampi trascorsi e statistiche su cui basare le previsioni di ciò che il recente crollo del petrolio può voler dire in termini d’inflazione dei prezzi al dettaglio, redditi reali e specifiche categorie di attività. Prezzo del petrolio in calo vuol dire una riduzione dell’attuale trasferimento di reddito e ricchezza da fruitore a produttore. In termini di singoli paesi, significa che l’Europa occidentale e centrale, diversi mercati emergenti e (in misura minore) gli Usa, otterranno vantaggi, mentre produttori come Opec, Russia, Indonesia e Norvegia subiranno perdite.
In Europa (e negli Usa) a beneficiarne di più saranno le famiglie, che al momento godono di un aumento del loro reddito reale, diviso in modo equivalente tra crescita dei consumi e ritorno al tasso medio di risparmio degli anni scorsi.
Anche settori di affari non legati al petrolio trarranno beneficio dalla situazione, grazie al basso costo dell’energia e alla maggiore domanda da parte delle famiglie.
Una situazione vantaggiosa a tutto tondo, che dovrebbe far sperare il meglio per la rinascita dell’economia e dei mercati azionari. Eppure, finora i mercati paiono confusi dal timore dei possibili danni all’economia originati dal calo dell’inflazione, che è diventata negativa e si è trasformata in deflazione. Un cruccio immotivato.
La deflazione crea danni solo quando è prodotta dal dilagare di una domanda insufficiente di beni e servizi a fronte dell’offerta, e se si accelera perché persone e aziende cominciano a ritardare gli acquisti prevedendo un ulteriore calo dei prezzi. Al contrario, è positiva quando scaturisce da uno scossone del prezzo all’importazione, come quello del petrolio, che innesca l’aumento dei redditi reali, a cui assistiamo attualmente. La riduzione del prezzo del petrolio spinge in basso l’inflazione complessiva solo temporaneamente; per deprimerla per più di un anno sarebbe necessario un calo dei prezzi ancora più rapido: scenario improbabile.
Tra i paesi esportatori di petrolio, si deve fare una distinzione tra quelli con un equilibrio basato su solidi risparmi – grossi investimenti in fondi sovrani – come l’Arabia Saudita, i piccoli paesi del Golfo e la Norvegia che usciranno dalla situazione attuale in ottima forma, e paesi come Russia, Iran e Venezuela, che vivono soprattutto del flusso di contante dovuto alla produzione di energia e stanno già lottando con la nuova realtà del calo dei prezzi.
Quest’anno, il Pil della Russia si contrarrà notevolmente, facendo crescere il bisogno di finanziamenti delle aziende. Date le sanzioni che bloccano l’accesso ai mercati finanziari occidentali, la Banca centrale ha cominciato a farsi avanti e fornire dollari ed euro alle imprese in sofferenza. Tuttavia, la banca centrale può svolgere questo ruolo solo fino a un certo limite.
Se i prezzi del petrolio non risalgono presto, l’imprenditoria russa affronterà un biennio 2015-2016 molto difficile. Verso metà anno le sanzioni potrebbero certo venire cancellate ma la restituita possibilità di accedere ai mercati finanziari porterà il necessario flusso di denaro solo se si recupera anche la fiducia degli investitori esteri. La chiave perché ciò accada è introdurre riforme economiche per liberalizzare l’economia e renderla meno dipendente dal mercato energetico.
Col calo del prezzo del petrolio è chiaro chi vince e chi perde, ma i mercati finanziari sono confusi.
Nella seconda metà del 2014, una novità sorprendente è stato il semi-crollo del prezzo internazionale del petrolio. Attestatosi, dopo il 2011, sui 100-120 dollari al barile, da luglio scorso il prezzo di riferimento del greggio Brent ha visto un calo più o meno costante ed è sceso sotto il tetto dei 50 dollari al barile.