Geopolitica in Afghanistan: dopo gli Usa, quali gli attori coinvolti
Dopo il ritiro Usa dall'Afghanistan, il destino del Paese è legato alle strategie regionali e grandi potenze come Russia, Cina, Pakistan e Iran rappresentano il nuovo filo rosso
Un poliziotto afghano dopo un attentato a un posto di blocco della polizia nel distretto di Khogyani della provincia di Nangarhar, Afghanistan, 7 febbraio 2021. REUTERS/Parwiz
Dopo il ritiro Usa dall’Afghanistan, il destino del Paese è legato alle strategie regionali e grandi potenze come Russia, Cina, Pakistan e Iran rappresentano il nuovo filo rosso
Un poliziotto afghano dopo un attentato a un posto di blocco della polizia nel distretto di Khogyani della provincia di Nangarhar, Afghanistan, 7 febbraio 2021. REUTERS/Parwiz
Da quasi vent’anni ormai i destini dell’Afghanistan appaiono strettamente legati alla realtà politica degli Stati Uniti. Rispetto alle tornate elettorali del passato, però, le elezioni statunitensi si presentavano potenzialmente meno decisive su questo fronte e la vittoria di Joe Biden non rappresenta quindi una novità dirompente. Questo perché gli ultimi mesi hanno visto, prima, la conclusione di un accordo bilaterale tra Usa e Talebani sul ritiro delle forze americane (entro il 30 aprile 2021) e, in parallelo, un impegno contro il terrorismo da parte del movimento fondamentalista. In seguito si è registrato l’avvio dei dialoghi intra-afgani tra il Governo di Kabul e gli stessi Talebani. Ovviamente entrambi i fronti sperano di ottenere vantaggi dalla salita al potere del 46esimo Presidente ma, come implicitamente già sottolineato, i margini di manovra di Biden sono limitati e la strada verso il completo disimpegno statunitense ormai inevitabilmente tracciata, a prescindere dai tempi. In futuro, quindi, probabilmente bisognerà iniziare a guardare meno a Washington per provare a prevedere il destino dell’Afghanistan e più verso altre capitali. Islamabad, Mosca, Teheran e Pechino su tutte.
L’invasione americana dell’Afghanistan del 2001 avvenne in un contesto regionale quasi completamente favorevole all’iniziativa. La minaccia del combinato disposto Talebani/Al Qaida rappresentava una sorta di spada di Damocle per molti Paesi, Pakistan compreso, nonostante le autorità di Islamabad abbiano nel corso degli anni spesso e volentieri garantito un rifugio sicuro ai Talebani afgani, alla rete Haqqani e alla stessa Al Qaida. Con l’incancrenirsi della situazione, oltre che dei rapporti di Washington con alcuni stati chiave, l’atmosfera è però cambiata. Un altro filo rosso ha iniziato a legare gli attori dell’area, prima nella comune insofferenza per il ruolo degli Stati Uniti in Afghanistan e, negli ultimi tempi, per la volontà di sfruttare l’ormai certo ritiro Usa per accrescere la propria influenza su Kabul.
Non si può iniziare un viaggio di questo tipo senza partire dal Pakistan, storicamente un vero e proprio deus ex machina ombra rispetto alla complicata situazione afgana. Gli Stati Uniti sono sempre stati a conoscenza di questo ruolo, giocato soprattutto dall’ISI (i servizi di intelligence pakistani), ma, al di là di periodiche sfuriate pubbliche – anche da parte di Trump – Washington è allo stesso tempo sempre stata consapevole di non poter fare a meno del peso del Pakistan in termini di influenza. Da parte sua, quest’ultimo ha negli ultimi anni letto in modo crescente la realtà afgana in chiave anti-indiana, vedendo quindi di buon occhio il mantenimento al potere dei Talebani afgani, alleati di vecchia data, considerato il loro atteggiamento favorevole agli interessi pachistani. Islamabad potrebbe però anche farsi bastare un Afghanistan debole e destabilizzato, se l’alternativa fosse un Paese stabile e a guida pashtun: in Pakistan, infatti, è presente una forte minoranza di etnia pashtun che potrebbe causare problemi interni, se riattivata dalla salita al potere di appartenenti allo stesso gruppo etnico in un paese confinante.
Proprio la menzionata India è forse il Paese che ha più da perdere dal definitivo ritiro Usa e dalla “normalizzazione” dei Talebani, come detto, vicini al Pakistan. New Delhi ha fornito all’Afghanistan aiuti allo sviluppo sotto forma di investimenti per oltre 3 miliardi di dollari dal 2001, sfruttando la (molto) relativa stabilità garantita dalla presenza statunitense in loco, e addestramento alle forze di sicurezza afgane. Le autorità indiane, di contro, sono però, sempre state un passo indietro nei negoziati di pace. È difficile che l’India riesca a recuperare in corsa il terreno perso, anche qualora cercasse maggiori sponde con altri attori centrali come Iran e Russia (o la Cina, con tutte le complicazioni del caso).
La Russia, dal canto suo, ha come primo obiettivo quello di evitare che l’Afghanistan possa diventare la base di lancio di infiltrazioni terroristiche in Asia centrale. Si tratta di uno spauracchio periodicamente agitato dal Cremlino, che ufficialmente teme soprattutto la minaccia rappresentata da ciò che rimane dell’Isis. Quanto queste minacce di infiltrazione siano reali è da dimostrare, quello che è certo è che Mosca ne sottolinea con enfasi il rischio anche per mantenere un ruolo di primo piano al tavolo dei negoziati, di cui in passato si è fatta anche organizzatrice diretta. Alcuni report hanno dimostrato l’aiuto militare e finanziario prestato dalla Russia ai Talebani afgani, mossa che si può spiegare in due modi. Da un lato, Putin ha la chiara visione che i Talebani saranno un interlocutore imprescindibile per la stabilità futura del Paese, soprattutto in chiave anti Isis/Al Qaida; dall’altro, Mosca vuole continuare a presentarsi come una valida alternativa agli Stati Uniti in termini di guida politica e di aiuti all’Afghanistan. Che questa prospettiva sia realistica o meno.
Parlando di timori relativi alla sicurezza, entra in gioco in modo dirompente la Cina, che condivide un breve tratto di confine con l’Afghanistan. Pechino ha nel corso degli anni rafforzato il proprio presidio militare delle aree limitrofre al confine afgano – attivando addirituttura un avamposto militare in Tagikistan – per evitare qualsiasi tipo di infiltrazione estremista nello Xinjiang. Sul fronte politico, la Repubblica popolare è rimasta ai margini del processo negoziale per la pacificazione dell’Afghanistan, così come sul fronte economico, nonostante gli ingenti investimenti nel paese (soprattutto nel settore estrattivo). La prospettata inclusione dell’Afghanistan nel progetto infrastrutturale Belt and Road Initiative, ad esempio, non si è al momento concretizzata, anche per le resistenze in tal senso del Pakistan. Proprio il rapporto tra Pechino e Islamabad potrebbe essere la matrice attraverso la quale la Cina approccerà la questione afgana, muovendosi di concerto con Islamabad evitando di agire direttamente con un ruolo di primo piano. È probabile che la Repubblica popolare attenda di capire gli effetti del definitivo ritiro statunitense, per non rimanere invischiata in un’eventuale discesa verso il caos.
Dopo le profondissime tensioni di fine anni ’90/inizio 2000, l’Iran negli ultimi anni si è avvicinato ai Talebani. Nonostante sulla carta si tratti per Teheran di una sorta di “patto col diavolo” – i Talebani sono fondamentalisti sunniti, l’Iran il baluardo degli sciiti a livello globale – a prevalere sono state considerazioni tattiche. Teheran punta a mantenere la propria influenza sull’Afghanistan, dove è presente una consistente minoranza sciita, gli Hazara, anche nel malaugurato caso di un ritorno al potere dei Talebani. Questo anche per evitare che il suo confine orientale possa trasformarsi in un’autostrada attraverso la quale forze ostili siano in grado di infilitrarsi e destabilizzare il regime iraniano. Quest’ultimo si sta impegnando anche per fare dell’Iran un hub logistico regionale, prospettiva che vede nell’Afghanistan un attore di primo piano, come dimostra anche l’inaugurazione, avvenuta a dicembre 2020, del primo collegamento ferroviario tra i due paesi, finanziato interamente da Teheran.
Tornando al filo rosso, un altro elemento comune che caratterizza i Paesi che da esso sono idealmente legati è il timore che il ritiro statunitense possa far precipitare l’Afghanistan nel caos. Questo vale anche per altri attori regionali, come l’Uzbekistan, che negli ultimi tempi hanno cercato di giocare un ruolo maggiore rispetto alla questione afgana. Da un’altra prospettiva, infine, a sperare nella stabilità è anche la popolazione del paese, larghe fasce della quale, inoltre, temono che un troppo affrettato ritiro statunitense possa trovare impreparate le fragili istituzioni di Kabul. Spianando la strada al definitivo ritorno al potere dei Talebani.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Dopo il ritiro Usa dall’Afghanistan, il destino del Paese è legato alle strategie regionali e grandi potenze come Russia, Cina, Pakistan e Iran rappresentano il nuovo filo rosso
Da quasi vent’anni ormai i destini dell’Afghanistan appaiono strettamente legati alla realtà politica degli Stati Uniti. Rispetto alle tornate elettorali del passato, però, le elezioni statunitensi si presentavano potenzialmente meno decisive su questo fronte e la vittoria di Joe Biden non rappresenta quindi una novità dirompente. Questo perché gli ultimi mesi hanno visto, prima, la conclusione di un accordo bilaterale tra Usa e Talebani sul ritiro delle forze americane (entro il 30 aprile 2021) e, in parallelo, un impegno contro il terrorismo da parte del movimento fondamentalista. In seguito si è registrato l’avvio dei dialoghi intra-afgani tra il Governo di Kabul e gli stessi Talebani. Ovviamente entrambi i fronti sperano di ottenere vantaggi dalla salita al potere del 46esimo Presidente ma, come implicitamente già sottolineato, i margini di manovra di Biden sono limitati e la strada verso il completo disimpegno statunitense ormai inevitabilmente tracciata, a prescindere dai tempi. In futuro, quindi, probabilmente bisognerà iniziare a guardare meno a Washington per provare a prevedere il destino dell’Afghanistan e più verso altre capitali. Islamabad, Mosca, Teheran e Pechino su tutte.
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