L’anima riformista del Governo Scholz lascia sperare che, dopo il lungo regno immobilista di Angela Merkel, la Germania ritrovi il suo ruolo di motore d’Europa
Per l’eterogenea coalizione “semaforo” al governo in Germania, che vede insieme i Socialdemocratici del neo Cancelliere Scholz, i Verdi e i Liberali, i temi di politica economica europea sono quelli più controversi e forieri di potenziali conflitti; su Europa, regole, debito, il dettagliatissimo programma di coalizione cerca una difficile quadra tra partiti con piattaforme politiche molto diverse, quando non opposte.
L’accordo è importante tanto per quello che dice che per ciò che non dice. Una prima osservazione è che nel programma l’Europa è onnipresente, dalle politiche ambientali alla governance europea, dalla politica estera alla digitalizzazione e ai temi sociali; questo segnala che nei prossimi anni la Germania non intende rinunciare al proprio ruolo di perno della politica europea e di capomastro dei cantieri di riforma. Per provare a prevedere se questo ruolo sarà propulsivo o se la Germania continuerà ad essere una forza di conservazione come durante la crisi del debito sovrano, occorre entrare nei dettagli dell’accordo su due temi apparentemente non legati tra loro: le politiche per la transizione ecologica e le riforme della governance economica europea. Per quel che riguarda le prime, i Verdi sono riusciti a spuntare un’accelerazione dell’uscita dal carbone, anticipata al 2030 (dal 2038) quando l’80% dell’offerta di elettricità dovrà essere assicurata dalle energie rinnovabili. Questo richiederà investimenti pubblici colossali (stimabili in almeno 450 miliardi di euro nei prossimi dieci anni) che pongono il problema delle risorse e dei limiti alla politica di bilancio, in Germania come in Europa.
Nel marzo 2020 la Commissione europea ha attivato la clausola di sospensione del Patto di stabilità, per lasciar mano libera (fino a tutto il 2022) ai governi europei nel contrasto alle conseguenze del Covid. La sospensione delle regole è arrivata quando Bruxelles aveva già lanciato un progetto di consultazione per la loro riforma. Il Patto nella sua forma attuale è oggi considerato inadatto dalla maggior parte dei leader politici europei. Le istituzioni disegnate negli anni Novanta, infatti, già uscite malconce dalla calamitosa gestione della crisi greca, dopo il Covid appaiono vestigie di un’altra era. In primo luogo, il Patto si è dimostrato prociclico, forzando i Paesi a politiche restrittive durante la crisi e non riuscendo ad incentivare comportamenti virtuosi nei periodi di forte crescita. Poi, ha spinto i governi a ridurre i disavanzi abbattendo l’investimento pubblico, una strategia elettoralmente meno costosa del taglio di salari e prestazioni sociali. Infine, il sistema di regole negli anni è diventato barocco e inefficace, basato su variabili arbitrarie che di fatto rendono impossibile una valutazione oggettiva del rispetto o meno della disciplina di bilancio.
È ovvio che la posizione della Germania sarà imprescindibile nella discussione sulla governance. Ed è proprio su riforma delle regole e creazione di una capacità di bilancio europea che le distanze tra i partiti della coalizione sono più marcate. A Verdi e Socialdemocratici, che insistono sul bisogno di politiche sociali, di regole che consentano di investire e sull’importanza di progetti pan europei, si oppongono i Liberali, strenuamente opposti a modifiche dei trattati che definiscano regole più flessibili e che insistono sul carattere temporaneo e limitato del programma di investimento europeo Next Generation EU (NGEU). Non a caso, in un testo che su alcuni temi scende nei dettagli più minuti, riguardo all’Europa le formulazioni sono vaghe, come a non voler pregiudicare negoziati ulteriori.
Riguardo a NGEU, a parte l’ovvia constatazione che si tratta di un programma temporaneo e limitato, non c’è nessun impegno né in un senso (un’evoluzione verso una struttura permanente) né nell’altro (ritorno a debito esclusivamente nazionale); allo stesso tempo, si auspicano piani di investimento propriamente europei oggi assenti (ricordiamo che si tratta di un programma di indebitamento comune volto a finanziare investimenti e riforme che sono comunque effettuati dai Paesi membri tramite i Pnrr). Un tenersi le mani libere che si ritrova anche nel compromesso sulla riforma del Patto di stabilità: la formulazione del testo è pesata con il bilancino: se da un lato ribadisce il bisogno di regole che “siano più efficaci” garantendo sia crescita sia sostenibilità delle finanze pubbliche, dall’altro menziona esplicitamente il bisogno di investimenti e apre a “ulteriori sviluppi” che contribuiscano a questi obiettivi. Se a questo si aggiunge che, poco oltre, l’accordo apre a possibili modifiche dei trattati nell’incorporare i risultati della conferenza sul futuro dell’Europa, si può concludere che la partita è aperta.
La mancanza di impegni precisi su regole e capacità di bilancio europea, insieme al fatto che i Liberali non siano stati in grado di mettere nero su bianco nessuno dei veti che avevano espresso durante la campagna elettorale, potrebbe giocare a favore dell’anima riformista della coalizione. Infatti, per tenere insieme la “trinità impossibile”, il bisogno di investimenti pubblici, l’impegno a non aumentare le tasse (un altro punto su cui insistevano i Liberali) e la fedeltà a disciplina di bilancio e riduzione del debito, la coalizione prevede in primo luogo di indebitarsi massicciamente nel 2022, quando il Patto di stabilità sarà ancora sospeso, per poi finanziare gli investimenti negli anni successivi; e poi, ad usare agenzie fuori dal bilancio dello stato per finanziare gli investimenti futuri senza aumentare disavanzo e debito pubblici.
Ora, è alquanto improbabile che la Commissione faccia passare un trucco così smaccato; ci si troverebbe a dover finanziare un vasto programma di investimenti senza aumentare le tasse, due punti su cui l’accordo di coalizione non ammette deroghe e ambiguità. Socialdemocratici e Verdi potrebbero a quel punto sfruttare la vaghezza dell’accordo in tema di debito e regole per far passare una riforma delle norme europee (ma anche del debt brake interno). Vista anche la posizione francese e italiana, recentemente definita da una lettera congiunta di Draghi e Macron al Financial Times, è probabile che la Commissione nei prossimi mesi proponga una “regola d’oro verde” che scomputi gli investimenti nella transizione ecologica dai parametri del Patto di stabilità. Si tratterebbe di un’evoluzione importante, che segnalerebbe, infine, la priorità data all’investimento pubblico; tuttavia, essa sarà probabilmente insufficiente per consentire agli Stati membri di acquisire quei margini di manovra che oggi non hanno e colmare il deficit di infrastrutture e di capitale sociale che hanno accumulato negli scorsi decenni.
Se sulla possibilità di dotare l’Unione di una capacità di bilancio centrale nessun governo europeo ha finora scoperto le carte (molto dipenderà dal successo di NGEU, in particolare nel nostro paese), su altri temi il programma di governo della coalizione semaforo promette un cambiamento di rotta rispetto all’era Merkel. È il caso dell’impegno a sostenere gli obiettivi dell’Unione europea nel campo dei diritti sociali; è significativo, ad esempio, l’appoggio alla direttiva sul salario minimo votata di recente dal Parlamento europeo, insieme alla proposta di aumentarlo in Germania fino a 12 euro. La rinnovata attenzione a redditi e diritti non vuole certo dire che la Germania abbia chiaramente abbandonato il proprio modello di crescita mercantilista, tanto più che il posto di ministro delle finanze ottenuto dal leader dei Liberali Christian Linder lascia presagire aspri confronti con le istanze riformiste. Tuttavia, almeno sulla carta, l’equilibrio trovato da Olaf Scholz nel comporre il programma di governo apre uno spazio politico per riforme significative che mettano l’Europa in condizioni di far fronte alle sfide dei prossimi anni. C’è quindi da sperare che, dopo il lungo regno immobilista di Angela Merkel, la Germania ritrovi il suo ruolo di motore d’Europa.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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Per l’eterogenea coalizione “semaforo” al governo in Germania, che vede insieme i Socialdemocratici del neo Cancelliere Scholz, i Verdi e i Liberali, i temi di politica economica europea sono quelli più controversi e forieri di potenziali conflitti; su Europa, regole, debito, il dettagliatissimo programma di coalizione cerca una difficile quadra tra partiti con piattaforme politiche molto diverse, quando non opposte.
L’accordo è importante tanto per quello che dice che per ciò che non dice. Una prima osservazione è che nel programma l’Europa è onnipresente, dalle politiche ambientali alla governance europea, dalla politica estera alla digitalizzazione e ai temi sociali; questo segnala che nei prossimi anni la Germania non intende rinunciare al proprio ruolo di perno della politica europea e di capomastro dei cantieri di riforma. Per provare a prevedere se questo ruolo sarà propulsivo o se la Germania continuerà ad essere una forza di conservazione come durante la crisi del debito sovrano, occorre entrare nei dettagli dell’accordo su due temi apparentemente non legati tra loro: le politiche per la transizione ecologica e le riforme della governance economica europea. Per quel che riguarda le prime, i Verdi sono riusciti a spuntare un’accelerazione dell’uscita dal carbone, anticipata al 2030 (dal 2038) quando l’80% dell’offerta di elettricità dovrà essere assicurata dalle energie rinnovabili. Questo richiederà investimenti pubblici colossali (stimabili in almeno 450 miliardi di euro nei prossimi dieci anni) che pongono il problema delle risorse e dei limiti alla politica di bilancio, in Germania come in Europa.