La necessità di una risposta immediata ai flussi migratori spinge i Governi di Stati Uniti e Messico al contenimento e al respingimento, che spesso sfociano in repressione e abuso
Le immagini degli haitiani rincorsi dagli agenti a cavallo in Texas, lungo la frontiera meridionale degli Stati Uniti, non sono troppo diverse dai video – girati al confine sud del Messico, vicino al Guatemala – che mostrano le autorità messicane picchiare un migrante con calci e pugni. Eppure la retorica ufficiale dei due Governi, americano e messicano, sull’immigrazione è completamente diversa: entrambi dicono di volere un approccio umanitario; di puntare alla regolazione dei flussi attraverso percorsi legali e sicuri; di voler affrontare le cause profonde investendo nel miglioramento delle condizioni di vita nei luoghi di origine.
La questione migratoria per Biden
Tutto questo è reale, non solo nelle parole ma nei fatti: l’amministrazione di Joe Biden ha stanziato 250 milioni di dollari di aiuti umanitari in America centrale; di recente Stati Uniti e Messico hanno accettato di collaborare a un piano di sviluppo per questa regione. L’altra faccia della medaglia è però altrettanto concreta ed evidente. I flussi migratori dal Centroamerica e dai Caraibi, per la loro entità, rappresentano una sfida gestionale sia per Washington che per Città del Messico: ad agosto ci sono stati 208.887 arresti di migranti alla frontiera statunitense, il massimo da vent’anni e contro ogni pattern stagionale; da quando Biden ha assunto l’incarico, ne sono stati fermati 1,2 milioni. La necessità di una risposta immediata al fenomeno spinge allora – oggi come in passato – i due Governi al contenimento, al respingimento, che spesso sfocia in repressione e abuso.
La gestione della frontiera comune – lunga 3200 chilometri, per la quale passano anche beni e servizi da oltre 500 miliardi di dollari all’anno – è un tema geopolitico che però diventa spesso politico, caricandosi di retorica. Biden non può rinunciare ad agire contro i flussi migratori perché altrimenti subirebbe gli attacchi dei repubblicani, che lo accusano di non “difendere” i confini nazionali; d’altra parte, non può nemmeno mostrarsi repressivo oppure verrebbe contestato dalla sinistra del suo Partito democratico.
Il contesto in Messico
Il contesto interno in cui opera il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador è invece diverso. Le critiche che riceve non vengono dalle altre forze politiche, troppo poco popolari, ma al massimo dalla società civile. Più che altro, López Obrador deve rispondere alle pressioni degli Stati Uniti, che gli chiedono di bloccare i migranti e rimandarli indietro, prima che possano arrivare alla frontiera settentrionale e diventare un “problema” americano.
Il Messico ha schierato grandi quantità di agenti in tenuta antisommossa di qua dal Guatemala. L’intero stato meridionale del Chiapas, e in particolare la città di Tapachula, funge da precaria “sala d’attesa” per i migranti irregolari che devono essere espulsi: questo mese se ne sono contati 40mila (quelli in Texas rincorsi a cavallo sono circa 12mila). Dipingere però il Messico come il semplice esecutore delle volontà della Casa Bianca sarebbe riduttivo e sbagliato. Esaminate in materia neutra, le politiche migratorie del governo López Obrador sono la conseguenza delle sue necessità. Deve limitare i flussi in entrata perché non ha capacità logistiche e di accoglienza sufficienti; e poi perché i sentimenti anti-immigrati sono in crescita e l’approccio “duro” è apprezzato dalla popolazione.
Da qualche anno, tra l’altro, il Messico sta diventando un posto in cui stabilirsi per chi viene respinto dalle autorità statunitensi. Nel 2021 potrebbe ricevere 100mila richieste di asilo, un record: sono già quasi 78mila. Nei primi otto mesi soltanto i migranti haitiani – quelli attorno ai quali si concentra l’attenzione in Texas – hanno presentato 18.883 domande, preceduti dai guatemaltechi (29.699).
È per questo che López Obrador sta insistendo molto sull’ottenere la partecipazione della Casa Bianca al suo piano di sviluppo per l’America centrale che punta, nel lungo periodo, proprio a ridurre la pressione migratoria sul Messico e sugli Stati Uniti. Nelle ultime settimane questi appelli alla collaborazione si sono intensificati nel numero e sono anche mutati nel contenuto. López Obrador, cioè, ha preso coscienza del processo di regionalizzazione delle filiere produttive – una conseguenza della competizione Washington-Pechino – e nei suoi discorsi menziona sempre più spesso l’Asia: la presenta come una regione dalla quale distaccarsi, in favore di un Nordamerica più autosufficiente. Oltre agli investimenti in America centrale, López Obrador chiede a Biden un ampio programma di visti temporanei per i lavoratori centroamericani e messicani, che potranno così recarsi legalmente negli Stati Uniti per contribuire al potenziamento della capacità manifatturiera del Nordamerica.
La necessità di una risposta immediata ai flussi migratori spinge i Governi di Stati Uniti e Messico al contenimento e al respingimento, che spesso sfociano in repressione e abuso