La Presidente neoeletta aveva parlato di un’apertura di rapporti formali con Pechino in caso di vittoria. In realtà, non ha fatto altro che richiamare l’attenzione degli Stati Uniti. Che hanno risposto
La Presidente eletta (di fatto) dell’Honduras Xiomara Castro, di sinistra, aveva promesso che, in caso di vittoria al voto di fine novembre, avrebbe “certamente” ricercato l’apertura di rapporti formali con la Cina. Andando così a spezzare gli storici legami con Taiwan, risalenti al 1941, prima ancora che il Paese – formalmente Repubblica di Cina, ma non riconosciuto da Pechino – stabilisse il suo Governo sull’isola di Formosa.
“Le relazioni continuano con Taiwan”
Le elezioni Castro sembra averle vinte e anche con largo margine: il suo avversario ha peraltro riconosciuto la sconfitta. Eppure l’annunciata svolta diplomatica, dalle inevitabili ripercussioni geopolitiche, pare che non ci sarà. Salvador Nasralla, talmente vicino a Castro al punto che potrebbe diventare uno dei suoi vice, ha parlato con l’agenzia Reuters. E alla domanda se l’Honduras avvierà relazioni formali con la Cina, ha risposto con un secco “no”. Poi ha aggiunto che “non ci sono relazioni con la Cina, le relazioni continuano con Taiwan. Il nostro alleato commerciale, il nostro alleato stretto, il nostro alleato storico sono gli Stati Uniti. Non vogliamo combattere con gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono il nostro alleato commerciale principale”.
Le parole di Nasralla sono molto significative, e raccontano più cose dei rapporti tra Washington e l’America centrale e caraibica di quanto non dicano dell’isolamento diplomatico di Taiwan, sempre meno riconosciuta nel mondo e anche in questa regione. L’Honduras resiste, ma negli ultimi anni la Repubblica dominicana ed El Salvador sono passati dalla parte della Cina.
Alla base del dietrofront dell’imminente Governo Castro c’è la dipendenza economica e commerciale dell’Honduras dagli Stati Uniti. Che non sono solamente – e nettamente – il primo mercato per l’import-export, ma anche la sorgente delle rimesse che gli honduregni emigrati lì per lavorare rimandano in patria, alle loro famiglie: questi flussi di denaro valgono circa il 20% del Pil del Paese, e costituiscono una fonte cruciale di valuta estera.
Il bluff dell’Honduras
L’ammiccamento alla Cina di Castro è stato, fondamentalmente, un bluff per far credere agli Stati Uniti di avere in mano una carta che potrebbe stravolgere il gioco. Non era davvero così: l’apertura a Pechino serviva a richiamare l’attenzione di Washington. Che ha risposto.
La Cina ha certamente interesse a restringere la presenza internazionale di Taiwan e anche a infilarsi nel “cortile di casa” della superpotenza che sta sfidando per il primato globale. Il Dragone può offrire all’Honduras – un Paese povero, che ha bisogno di aiuti – molti più investimenti di quanto non possa fare a Taiwan: al vicino El Salvador, ad esempio, ha promesso 500 milioni per uno stadio e una libreria.
Non si deve però sopravvalutare la presenza economica cinese nelle Americhe. Sia perché questa non si indirizza necessariamente in settori strategici, sia perché non si accompagna (né è detto che possa farlo, eventualmente) alla definizione di un progetto politico in opposizione a quello dominante, statunitense. Mantenere il continente libero da avversari interni ed esterni è una priorità irrinunciabile della geopolitica di Washington dai tempi della dottrina Monroe, che in passato ha assunto la forma di ingerenze pesanti e sostegni a colpi di Stato. Il ragionamento di fondo è il seguente: se gli Stati Uniti sono sicuri ed egemoni a casa, allora possono ricercare la supremazia nel resto del globo. Se viene meno la prima parte della frase, crolla anche la seconda.
Per la Cina il valore geostrategico dell’America centrale si riduce invece a Panama. Mentre il Triangolo del nord (Guatemala, El Salvador, Honduras) non ha risorse naturali interessanti e non è nemmeno un mercato per la manifattura ad alto valore aggiunto su cui Pechino sta puntando. La Cina sta corteggiando la regione, ma al momento non si avvistano vere minacce allo status quo. Gli Stati Uniti sono comunque all’erta: sanno che in un futuro gli equilibri potrebbero mutare e devono mostrarsi ricettivi ai segnali provenienti dall’area.
La risposta degli Stati Uniti
Dopo la pubblicazione del manifesto elettorale di Xiomara Castro, il responsabile degli affari dell’emisfero occidentale dell’amministrazione Biden, Brian Nichols, è andato in visita in Honduras. E il team della Presidente ha iniziato a fare marcia indietro sulla Cina. I gruppi imprenditoriali locali, comunque, erano contrari alla mossa perché controproducente da un punto di vista economico: avrebbe complicato i rapporti con Washington, mentre loro hanno intenzione di attrarre sul territorio honduregno le aziende americane che vogliono staccarsi dall’Asia e riportare la manifattura in patria o nelle vicinanze.
Grazie alla prossimità geografica e ai bassi costi del lavoro, l’America centrale può contribuire al piano di near-shoring delle filiere critiche portato avanti da Joe Biden. È una soluzione già proposta dal Messico, più volte. Ma complicata dalla crisi della sicurezza del Triangolo del nord, che rende la rilocalizzazione poco attraente.
Comunque, Washington ha risposto al bluff di Tegucigalpa con la carota: colpire con il bastone avrebbe alimentato il sentimento di alienazione della regione, la cui collaborazione è anzi ricercata dall’amministrazione Biden per gestire i flussi migratori verso il Rio Grande. Il 1° dicembre gli Stati Uniti e il Messico (promotore dell’iniziativa) hanno così annunciato un’iniziativa per lo sviluppo che punta a migliorare le condizioni di vita nel Triangolo del nord. Il piano si chiama Sembrando Oportunidades (“Seminando opportunità”), è rivolto ai giovani e partirà proprio dall’Honduras.
La Presidente neoeletta aveva parlato di un’apertura di rapporti formali con Pechino in caso di vittoria. In realtà, non ha fatto altro che richiamare l’attenzione degli Stati Uniti. Che hanno risposto