L’Europa sta reagendo alle forze di fanteria Houthi con l’invio di forze navali che battono bandiere nazionali senza cedere la direzione al comando complessivo dell’operazione, nell’attesa di un accordo che possa permettere loro di definirsi “forza europea”.
Non si può certo dire che in questo momento l’Europa si trovi in una situazione strategica particolarmente brillante. Alla nostra frontiera di nord est è infatti in corso da più di due anni una guerra feroce scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina. Un conflitto in cui l’Occidente non è, almeno per ora, ufficialmente coinvolto pur essendosi schierato sin dal suo inizio a favore di uno dei contendenti, l’Ucraina, cui Stati Uniti ed Unione Europea hanno fornito in ogni settore tutti gli aiuti che è stato possibile mobilitare senza oltrepassare quei limiti che avrebbero costretto la Russia ad un intervento diretto nei riguardi della Nato.
Sino ad ora, grazie anche al valore degli Ucraini, la bilancia degli scontri è rimasta sostanzialmente in equilibrio. Nei prossimi mesi però ci sarà da un lato, da considerare il fatto che il periodo pre-elettorale statunitense renderà più difficile agli Usa mantenere l’attuale livello di aiuti. D’altro canto poi, da questa parte dell’Atlantico parecchi paesi europei iniziano a trovarsi con gli arsenali vuoti – troppo vuoti considerata la situazione! – mentre il peso economico diretto ed indiretto dello scontro in atto si fa sempre più sentire e si moltiplicano i dubbi politici nazionali sulla linea strategica da adottare in futuro.
A tutto questo si è aggiunta poi, in tempi recentissimi, l’iniziativa dei tre Paesi Baltici che chiedendo alla Nato di rafforzare ulteriormente le loro predisposizioni di difesa, hanno certamente fatto crescere il livello di allarme con cui Mosca valuta la situazione complessiva.
Contemporaneamente poi, a sud est, in quel settore del Mediterraneo allargato che la Nato, integralmente concentrata su ciò che avveniva nei pressi della frontiera russa, ha colpevolmente trascurato per circa trenta anni, il terribile attacco di Hamas ad Israele e lo sproporzionato prezzo in vite umane della conseguente reazione hanno innescato una catena di causa /effetto/causa…. di inaudita pericolosità che potrebbe prima o poi finire col coinvolgere l’intera area mediorientale.
Mentre in varie forme lo scontro si estende ogni giorno coinvolgendo prima Hezbollah, poi i Palestinesi dei territori, quotidianamente confrontati ai coloni ebraici, in seguito la Siria ed infine il Pakistan e l’Iran, giunti anche essi ai ferri corti, l’attenzione dell’Occidente rimane per il momento concentrata sul settore dei trasporti marittimi.
A Suez, infatti, gli interventi missilistici dei ribelli Houthi dello Yemen sulle navi collegate in qualche modo, vale a dire per carico, proprietà o bandiera, ad interessi israeliani, hanno reso rapidamente insicuro l’approccio da Sud al Canale per il successivo ingresso nel Mediterraneo.
All’inizio, la minaccia è stata fortemente sottovalutata – al punto che in un mese soltanto 40 dei circa 2000 grandi cargo interessati hanno preferito scegliere la rotta più lunga per l’Europa optando per la circumnavigazione africana – ma col tempo, i timori dei grandi spedizionieri e dei loro maggiori clienti hanno finito con l’innescare una vera e propria corsa all’adozione della rotta più lunga e più sicura.
Sono cresciuti e cresceranno di conseguenza anche i costi dei noli marittimi, destinati a scaricarsi in maniera negativa sulle economie dei nostri paesi. I giornali parlano di un raddoppio dei costi: una valutazione forse esagerata cui però si aggiunge per i porti mediterranei anche il danno di essere tagliati fuori dalle normali rotte.
Dal punto di vista militare, l’Occidente sta reagendo con l’invio nell’area di una forza navale in cui siamo inseriti anche noi italiani. Il vero problema sta però nel fatto che il movimento Houthi è strutturato in maniera tale da non offrire, o da offrire soltanto raramente, obiettivi remunerativi per gli armamenti delle nostre navi o degli aerei trasportati a bordo. I ribelli yemeniti sono infatti forze di fanteria ed occorrerebbero altre forze di fanteria (“boots on the ground“, in gergo) per fissarli in maniera tale da riuscire a batterli efficacemente con il fuoco.
Vi sono quindi molti dubbi tecnici sull’adeguatezza di una reazione che a questo punto appare per molti aspetti destinata principalmente a rassicurare le opinioni pubbliche e gli operatori del settore dei nostri paesi.
Per quanto delicata e pericolosa possa essere questa situazione di crisi, essa resta però di un livello nettamente inferiore a quello che potrebbe essere raggiunto nel caso in cui in futuro, qualcuno dei potenziali contendenti attuali decidesse di trasformare anche il Golfo Persico (o Arabico, come chiamar lo si voglia) in una altra area di scontro. Verrebbero messi a rischio in tal caso i trasporti di idrocarburi destinati non soltanto all’Occidente bensì a tutte le aree maggiormente industrializzate del mondo. Il danno economico per le nostre economie si farebbe a quel punto gravissimo, considerata la difficoltà, se non l’impossibilità, di rimpiazzare i rifornimenti perduti.
Altrettanto grave si rivelerebbe a questo punto il rischio di escalation della crisi, visto che il Golfo Persico, nella varietà dei paesi che si affacciano sulle sue coste e del loro orientamento politico, potrebbe imporsi come il vero fuoco del contrasto in atto fra i sunniti, allineati sull’Arabia saudita, e gli sciiti, che riconoscono l’Iran quale loro incontrastata guida.
Si tratterebbe, in tal caso, di una situazione molto simile a quella che dovemmo affrontare fra il 1987 ed il 1988, allorché lo scontro in atto fra Iran ed Iraq, nonché le tensioni fra Usa ed Iran, misero in forse la sicurezza della navigazione nel Golfo.
Anche allora noi facemmo ricorso ad una reazione basata su una “politica delle cannoniere” adeguata a tempi nuovi, inviando una flotta che ebbe successo nella sua missione e fu agevolata nel proprio compito dal fatto che Iran ed Iraq, stremati da una guerra lunga otto anni, erano entrambi pronti a firmare la pace.
In fondo l’invio di navi resta poi il medesimo tentativo che noi stiamo compiendo anche al momento attuale, sia pure in una forma politicamente molto ambigua. Nella forza navale destinata al Golfo Persico i paesi europei maggiori, fra cui Francia, Spagna ed Italia, hanno infatti accettato di inserire proprie navi ma mantenendole sotto comando nazionale e senza cederne la direzione al comando complessivo dell’operazione, nell’attesa di un accordo che possa permettere loro di definirsi quali una forza europea.
Si tratta di un chiaro segno di come nel caso specifico l’atteggiamento politico della Ue, di maggior apertura verso Teheran, differisca chiaramente da quello dell’alleato d’oltre Oceano, più disposto ad azioni di forza soprattutto qualora entrassero in gioco anche interessi israeliani.
Da segnalare in ogni caso come in questo momento, forse assurdamente, il vero argine al dilagare del caos nell’intera area consista proprio nell’atteggiamento attendista di un Iran che, a parte qualche sporadica reazione, sembra non se la senta di spingere oltre un certo livello le tensioni internazionali, che comunque ha innescato, facendo fronte contemporaneamente anche alla gravissima crisi interna che lo travaglia.
Una situazione di fatto che noi potremmo sfruttare efficacemente sul piano politico e su quello diplomatico se motivi vari, prima fra tutti il nostro quadro di alleanze in area e fuori, non ci costringessero in ogni caso a ripiegare sul vecchio cliché delle forze navali.
E’ pur vero però che, come ripeteva spesso il Presidente Obama, “Se disponi soltanto di un martello, per te ogni problema è destinato ad essere affrontato come se fosse un chiodo!”.
Non si può certo dire che in questo momento l’Europa si trovi in una situazione strategica particolarmente brillante. Alla nostra frontiera di nord est è infatti in corso da più di due anni una guerra feroce scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina. Un conflitto in cui l’Occidente non è, almeno per ora, ufficialmente coinvolto pur essendosi schierato sin dal suo inizio a favore di uno dei contendenti, l’Ucraina, cui Stati Uniti ed Unione Europea hanno fornito in ogni settore tutti gli aiuti che è stato possibile mobilitare senza oltrepassare quei limiti che avrebbero costretto la Russia ad un intervento diretto nei riguardi della Nato.
Sino ad ora, grazie anche al valore degli Ucraini, la bilancia degli scontri è rimasta sostanzialmente in equilibrio. Nei prossimi mesi però ci sarà da un lato, da considerare il fatto che il periodo pre-elettorale statunitense renderà più difficile agli Usa mantenere l’attuale livello di aiuti. D’altro canto poi, da questa parte dell’Atlantico parecchi paesi europei iniziano a trovarsi con gli arsenali vuoti – troppo vuoti considerata la situazione! – mentre il peso economico diretto ed indiretto dello scontro in atto si fa sempre più sentire e si moltiplicano i dubbi politici nazionali sulla linea strategica da adottare in futuro.