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Coronavirus: il carcere dopo l’epidemia- L’inchiesta [Parte 3]


Il coronavirus poteva essere un'occasione per ripensare le pene detentive e ricordare la tutela della dignità dei detenuti. L'ultima parte della nostra inchiesta sulla giustizia

La pandemia del Covid-19 avrebbe potuto costituire un’ottima occasione per riflettere sull’essenza della pena detentiva. Sulla sofferenza che la detenzione infligge al corpo del condannato. Sulla necessità del carcere e sull’opportunità di scoprire qualcosa meglio del carcere.

Mentre il virus ha suscitato, nella grande maggioranza dei Paesi, risposte governative di tipo paternalistico per i cittadini liberi, dove il buon padre di famiglia sa che, per il bene del figliolo, è opportuno selezionare le informazioni ed è preferibile indicare ciò che è consentito e ciò che non lo è (“non sono permessi party” ha più volte ribadito il Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, illustrando l’ultimo DPCM del 26 aprile), l’attenzione per i cittadini detenuti è stata diversa. E il riflesso vendicativo che trasfigura buona parte della pubblica opinione non è mutato. Non è la dignità umana a essere stata messa al centro del dibattito pubblico quanto esigenze di tipo securitario. Si è affrontata l’emergenza senza cogliere l’occasione di ripensare il carcere.

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