I colloqui diplomatici in Arabia Saudita non hanno portato finora a nessuna soluzione. Da sette mesi si assiste allo scontro tra le Forze armate sudanesi guidate dal presidente Abdel Fattah al-Burhan e le milizie con a capo l’ex vicepresidente Mohamad Hamdan Dagalo.
Mentre a Gedda si parla di pace, in Darfur i civili continuano a morire e riemergono le violenze etniche. Sono queste le notizie che arrivano in questi giorni dal Sudan e che alimentano il pessimismo riguardo alle possibilità di arrivare ad una fine della guerra civile nel Paese.
Come era facilmente prevedibile, i colloqui diplomatici che stanno avvenendo in Arabia Saudita non hanno portato fino a questo momento a nessuna soluzione. Era successo lo stesso a maggio, quando nella città saudita era stato fatto un primo tentativo di arrivare ad un cessate il fuoco. Ed anche il secondo round di incontri sembra destinato a lasciare il panorama invariato, nonostante il coinvolgimento come mediatori di Riad, degli Stati Uniti e dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), l’organizzazione regionale che riunisce gli stati del Corno d’Africa.
Il fatto che la fine delle ostilità non sia vicina sembra poi essere dimostrato anche da quanto accade sul campo, dove da sette mesi si assiste allo scontro tra le Forze armate sudanesi (SAF) guidate dal presidente del Consiglio sovrano di transizione Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di supporto rapido (RSF), una milizia con a capo l’ex vicepresidente Mohamad Hamdan Dagalo.
Ora il fulcro dei combattimenti si è spostato dalla capitale Khartoum alla sua città gemella, Omdurman, situata sull’altra riva del Nilo: qui, secondo quanto riportato da Agenzia Nova nei giorni scorsi, l’esercito regolare sta portando avanti una violenta offensiva contro le RSF, cercando di riconquistare le aree finora controllate dal gruppo paramilitare. Ma il fatto che gli attacchi siano portati avanti in quartieri cittadini e densamente abitati ha conseguenze importanti soprattutto per la popolazione civile, che si vede esposta a bombardamenti e a combattimenti urbani.
Per quanto la situazione sia critica in ogni parte del Paese, è in Darfur che le violenze tra SAF e RSF potrebbero portare agli esiti più drammatici.
Situata nella parte occidentale del Sudan, al confine con il Ciad, la regione è infatti già stata teatro di violenze nel corso degli ultimi vent’anni. Nel 2003, in Darfur ebbe inizio un’insurrezione guidata da una serie di gruppi, che chiedevano la fine dell’oppressione delle popolazioni non arabe da parte del regime di Al Bashir. A questa ribellione il governo centrale rispose con inaudita violenza, attuando un vero e proprio piano di pulizia etnica verso tutti gli abitanti del Darfur di etnia diversa da quella araba.
Negli anni la repressione è diventata meno intensa, ma di fatto non si è mai conclusa. Ancora prima dell’inizio del nuovo conflitto civile, dunque, l’area era attraversata da forti tensioni etniche e sociali, dovute alla devastazione della guerra, alle condizioni climatiche sfavorevoli e alla presenza di oltre 2 milioni di sfollati interni.
Ad aggravare la situazione c’è la presenza di Mohamad Hamdan Dagalo, detto Hemeti, e delle sue RSF. Dagalo non è infatti una figura qualsiasi: durante la guerra in Darfur aveva fatto parte dei Janjaweed, le milizie arabe utilizzate da Al Bashir per il genocidio nei confronti delle etnie africane nella regione. Una volta conclusa la parte centrale del conflitto, Hemeti aveva creato le Forze di supporto rapido, riunendo al loro interno una serie di combattenti che si erano distinti nelle violenze in Darfur e riuscendo in breve tempo ad acquistare un forte peso politico, prima sotto al Bashir e poi come vicepresidente.
Ora che anche il Darfur è diventato una delle aree in cui si concentra il conflitto tra l’esercito regolare e le milizie di Dagalo, il rischio è che la regione veda riemergere prepotentemente le violenze etniche che negli ultimi anni erano rimaste sotto traccia, con i miliziani intenzionati a portare avanti le violenze cominciate nel 2003.
È quello che appare anche dalle ultime notizie, che parlano di mille morti nel giro di pochi giorni e di numerosi abusi e violazioni dei diritti umani compiute dalle RSF. Particolarmente gravi le accuse riportate dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, che parlano di almeno venti donne tenute in condizioni di schiavitù da parte delle milizie.
Le violenze delle RSF hanno attirato anche l’attenzione dell’Unione europea, che si è esposta attraverso le parole dell’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell. “L’Ue sta collaborando con la Corte penale internazionale e altri partner internazionali per monitorare e documentare le violazioni dei diritti umani, al fine di appurare le responsabilità e contribuire a porre fine alla cultura dell’impunità in Sudan. La comunità internazionale non può chiudere gli occhi su quanto sta accadendo in Darfur e permettere che si verifichi un altro genocidio in questa regione”.
Mentre a Gedda si parla di pace, in Darfur i civili continuano a morire e riemergono le violenze etniche. Sono queste le notizie che arrivano in questi giorni dal Sudan e che alimentano il pessimismo riguardo alle possibilità di arrivare ad una fine della guerra civile nel Paese.
Come era facilmente prevedibile, i colloqui diplomatici che stanno avvenendo in Arabia Saudita non hanno portato fino a questo momento a nessuna soluzione. Era successo lo stesso a maggio, quando nella città saudita era stato fatto un primo tentativo di arrivare ad un cessate il fuoco. Ed anche il secondo round di incontri sembra destinato a lasciare il panorama invariato, nonostante il coinvolgimento come mediatori di Riad, degli Stati Uniti e dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), l’organizzazione regionale che riunisce gli stati del Corno d’Africa.