In mezzo alla contesa tra le due superpotenze, Taiwan, esca americana per attrarre la Cina in un’avventura rischiosa, vorrebbe mantenere lo status quo in vigore da 73 anni, che però è già stato parzialmente eroso
“Preoccupata? Se Pechino invaderà o non invaderà non dipende da me, da noi. Perché non dovrei andare avanti con la mia vita? È come se non facessi più nulla perché so che un giorno morirò”. Hsiah-han, neolaureata di Taipei, sintetizza quel misto di fatalismo e ineluttabilità che pervade molti a Taiwan. La visita di Nancy Pelosi e le esercitazioni militari più vaste di sempre intorno all’isola rischiano di convincere le tre parti coinvolte in questa nuova crisi sullo Stretto che la soluzione militare sia inevitabile, prima o poi. Il Partito comunista cinese teme che l’escalation diplomatica degli Stati Uniti sia tesa a cambiare lo status quo portando verso un’indipendenza di Taipei come Repubblica di Taiwan, che sarebbe formale e non più de facto come Repubblica di Cina. Un grande frammento della politica americana e del Pentagono teme che l’escalation militare di Pechino sia volta alla modifica dello status quo a suo vantaggio, in cui la “riunificazione” (“unificazione” per Taipei) dovrà essere ottenuta anche a costo di utilizzare la forza. Taipei, in mezzo alla contesa tra le due superpotenze, vorrebbe mantenere uno status quo che è già stato parzialmente eroso e teme di doversi davvero preparare a un ipotetico conflitto che si è sempre ritenuto possibile senza però intravederne i contorni.
D’altronde, Taiwan è un tema sul quale negoziare è impossibile. Sia tra le due sponde dello Stretto sia tra Usa e Cina. Il massimo che si può ottenere col dialogo è trovarsi d’accordo di essere in disaccordo, all’interno però di un perimetro controllato nel quale le tensioni restano sotto la soglia di pericolo. Un perimetro che si è progressivamente dissolto dal 2016 in poi. L’arrivo della Presidente Tsai Ing-wen a Taipei ha portato Xi Jinping a cancellare il processo di dialogo che era sfociato l’anno precedente con lo storico incontro con Ma Ying-jeou a Singapore. Il Partito progressista democratico taiwanese non riconosce il “consenso del 1992”, secondo cui Taipei e Pechino ammettevano l’esistenza di un’unica Cina senza però stabilire quale fosse. Precondizione richiesta dal Partito comunista per il dialogo. In questo contesto le due superpotenze hanno iniziato a testare le rispettive linee rosse. Da una parte con la telefonata tra Donald Trump e Tsai, la vendita di armi e l’intensificarsi delle visite politiche dopo l’eliminazione delle restrizioni auto imposte nei rapporti bilaterali operata da Mike Pompeo e confermata da Joe Biden. Dall’altra con l’erosione dello spazio diplomatico di Taipei nelle organizzazioni internazionali e con una posa muscolare che ha portato alla regolarizzazione delle incursioni nello spazio di identificazione di difesa aerea a partire dal 2019.
Perché Taiwan è così importante
Per le due superpotenze Taiwan è importante, cruciale. Nel contesto della loro relazione ma anche per le loro stesse ambizioni. Per la Cina, Taiwan è un obiettivo storico. La “riunificazione” è la missione da compiere per archiviare definitivamente le cicatrici delle “umiliazioni” passate e completare il “ringiovanimento nazionale“. Il panorama del 2049, centenario della Repubblica Popolare, potrebbe essersi avvicinato. Il terzo libro bianco sulla questione di Taiwan, così come l’agenda che verrà probabilmente annunciata durante il XX Congresso di ottobre, reca la formula della “nuova era”. Potrebbe essere l’orizzonte politico di Xi. Per gli Usa, la Cina è diventato il primo rivale e il centro della loro strategia è diventato l’Asia-Pacifico. Da allora la Casa Bianca si prodiga a rassicurare Taipei sulla volontà di difenderla. Tra gaffe (di Biden) e finti segreti svelati (la presenza di consiglieri militari a Taiwan), l’ambiguità strategica sembra essere meno ambigua. Kiev è il 67esimo partner commerciale di Washington, Taipei il nono. Taiwan ha anche un’importanza simbolica. Esempio vivente che un governo etnicamente cinese può prosperare senza la guida comunista. Se Taiwan cadesse, il Pacifico (cioè il centro cruciale degli interessi e del potere americani) sarebbe improvvisamente meno a stelle e strisce. E Pechino potrebbe sfondare oltre la prima catena di isole. Taiwan è un argine impossibile da abbandonare o, nella peggiore delle ipotesi per i taiwanesi, l’esca per attrarre la Cina in un’avventura che potrebbe anche mettere a rischio la tenuta interna del suo sistema.
Senza contare il ruolo cruciale dei semiconduttori taiwanesi. L’isola controlla circa il 66% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio dei microchip (la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, pesa da sola oltre il 50%), il “petrolio elettronico” del terzo millennio. Il dominio è ancora più esteso dal punto di vista qualitativo: i produttori taiwanesi detengono il 92% della manifattura di chip sotto i dieci nanometri. Non è un caso che sia Washington sia Pechino stanno cercando disperatamente di ridurre la dipendenza dagli attori taiwanesi con finanziamenti mastodontici per i player nazionali. Quel momento appare ancora lontano, ma quando uno o l’altro non avranno più bisogno di Taiwan, verrà meno uno dei motivi per evitare la guerra.
Il rischio di una escalation è reale?
Quello che può succedere dipenderà molto dalla percezione che Pechino avrà sul tempo e sulle proprie opportunità di vincere un possibile conflitto, possibilmente senza il coinvolgimento degli Stati Uniti. La vicenda ucraina non è collegata a quella taiwanese ma ha portato un insegnamento importante a Pechino: se ci sarà invasione dovrà essere il più veloce possibile. Per questo sembrano decadere le possibilità di uno stress test su un’isola minore come Kinmen o Matsu, arcipelaghi a pochi chilometri di distanza dalle coste del Fujian con gli abitanti che si percepiscono come cinesi (della Repubblica di Cina fondata da Sun Yat-sen) e non come taiwanesi e tradizionale punto di interconnessione sullo Stretto. L’ipotesi era valida se si pensava che tale azione avrebbe portato il governo taiwanese a negoziare. Ma i fatti degli ultimi mesi, a partire dalle rispettive reazioni dopo l’invasione russa, vanno in direzione opposta. Attaccare solo queste isole potrebbe significare perdere l’ultima speranza di dialogo col resto del territorio amministrato da Taipei. Gli analisti militari taiwanesi credono che se Pechino opterà per un’azione militare sceglierà l’invasione su larga scala. Ma i tempi non sarebbero ancora maturi. Nella prima fase vanno trasportate almeno 60mila truppe ma per ora ne possono portare solo la metà.
Fino a qualche tempo fa, Pechino era convinta che il tempo fosse dalla sua parte. Ora ci sono molte variabili ed è ansiosa. Questo rende la situazione più pericolosa. Anche perché nel frattempo, dopo essere entrata regolarmente nello spazio di identificazione di difesa aerea, Pechino ha cancellato anche la “linea mediana”, non riconosciuta ma ampiamente rispettata fino alle scorse settimane. Una sorta di “confine” sullo Stretto che ora non c’è più. Mezzi aerei e navali cinesi e taiwanesi saranno sempre più a stretto contatto, aumentando il rischio di incidenti. Anche perché, come spiega Chieh Chung della National Policy Foundation di Taipei, “oltre la linea mediana non arriveranno solo navi da guerra ma anche guardia costiera e milizia marittima”. Un po’ come accaduto intorno alle isole Senkaku/Diaoyu, contese tra Cina e Giappone, dopo la crisi del 2012.
Senza trascurare altri due scenari: un blocco navale e un decapitation strike. Nel primo caso, se le navi dell’Esercito popolare di liberazione circondassero l’isola principale di Taiwan per oltre due settimane metterebbero in grande crisi le riserve di energia e materie prime, con possibili tumulti interni. Anche se una strategia di questo tipo darebbe il tempo di reagire alle forze militari taiwanesi ed, eventualmente, americane. Nel secondo caso, invece, Taipei potrebbe subire un’operazione speciale mirata a eliminare i leader politici e strategici.
Le preoccupazioni su Hong Kong
Nel frattempo, Pechino affila anche le sue armi normative. La lista nera dei “secessionisti” continua ad allungarsi con politici e diplomatici taiwanesi di primo livello, con conseguenze anche per individui e aziende in qualche modo collegati. I quasi due milioni di taiwanesi presenti in Cina continentale potrebbero diventare obiettivi, mentre circola l’ipotesi di una nuova “legge per la riunificazione” in superamento dell’attuale “legge anti secessione” del 2005, disegnata sull’esempio della legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong. Non avrebbe vigore a Taiwan, fin quando almeno il Partito comunista non ne dovesse prendere il controllo, ma rappresenterebbe una base “legale” per future azioni e per esercitare pressioni sulle autorità straniere nei loro rapporti con Taipei e i taiwanesi.
Non conforta i taiwanesi quello che manca nel nuovo libro bianco. Nel documento manca un passaggio chiave contenuto nei precedenti del 1993 e del 2000: quello in cui Pechino garantiva che non avrebbe inviato truppe o personale amministrativo sull’isola una volta raggiunta la “riunificazione”. E le parole di Lu Shaye, ambasciatore cinese in Francia, sulla necessità di “rieducare” i taiwanesi dopo che sono stati “indottrinati e intossicati” da un’educazione di “desinicizzazione” non lasciano certo presagire un alto grado di autonomia anche qualora Taipei dovesse accettare il modello “un paese, due sistemi”. Eventualità sempre più remota dopo quanto accaduto negli scorsi anni nell’ex colonia britannica.
Se è certo che le pressioni di Pechino e le azioni diplomatiche e legislative americane proseguiranno (gli Usa discuteranno presto il Taiwan Policy Act che darebbe ulteriore spazio di manovra diplomatica a Taipei), la fase tra il 2024 e il 2027 potrebbe essere particolarmente delicata. Elezioni taiwanesi col possibile avvento di William Lai, una figura ben più radicale della centrista Tsai, elezioni americane e poi il XXI Congresso del Partito comunista. Questione di tempo e di finestre di opportunità. Coi fatti di queste settimane il rischio che qualcuno possa provare ad aprire queste finestre per vedere che cosa c’è fuori si è fatto più concreto.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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In mezzo alla contesa tra le due superpotenze, Taiwan, esca americana per attrarre la Cina in un’avventura rischiosa, vorrebbe mantenere lo status quo in vigore da 73 anni, che però è già stato parzialmente eroso
“Preoccupata? Se Pechino invaderà o non invaderà non dipende da me, da noi. Perché non dovrei andare avanti con la mia vita? È come se non facessi più nulla perché so che un giorno morirò”. Hsiah-han, neolaureata di Taipei, sintetizza quel misto di fatalismo e ineluttabilità che pervade molti a Taiwan. La visita di Nancy Pelosi e le esercitazioni militari più vaste di sempre intorno all’isola rischiano di convincere le tre parti coinvolte in questa nuova crisi sullo Stretto che la soluzione militare sia inevitabile, prima o poi. Il Partito comunista cinese teme che l’escalation diplomatica degli Stati Uniti sia tesa a cambiare lo status quo portando verso un’indipendenza di Taipei come Repubblica di Taiwan, che sarebbe formale e non più de facto come Repubblica di Cina. Un grande frammento della politica americana e del Pentagono teme che l’escalation militare di Pechino sia volta alla modifica dello status quo a suo vantaggio, in cui la “riunificazione” (“unificazione” per Taipei) dovrà essere ottenuta anche a costo di utilizzare la forza. Taipei, in mezzo alla contesa tra le due superpotenze, vorrebbe mantenere uno status quo che è già stato parzialmente eroso e teme di doversi davvero preparare a un ipotetico conflitto che si è sempre ritenuto possibile senza però intravederne i contorni.