L’ex amministratore delegato di Google ritiene che le capacità della Cina nel settore siano molto vicine a quelle degli Stati Uniti e che tra i due Paesi debba esserci una sana competizione
Eric Schmidt, ex amministratore delegato di Google e oggi Presidente della Commissione di sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale (un organo indipendente che analizza le implicazioni di questa tecnologia per la difesa americana), pensa che le capacità della Cina nel settore siano “molto più vicine di quanto credessi” a quelle degli Stati Uniti.
Cosa pensa Schmidt
Fino a non molto tempo fa, Schmidt sosteneva che Pechino avrebbe raggiunto i livelli di Washington sull’intelligenza artificiale e sul computing quantistico nel giro di “un paio d’anni”. Venerdì scorso tuttavia, in un’intervista al quotidiano giapponese Nikkei Asia, ha detto che il divario informatico tra le due nazioni si sta riducendo. Non ha motivato la sua affermazione, ma ha spiegato cosa dovrebbe fare l’America per garantirsi il primato sulle tecnologie strategiche: creare “una partnership molto forte con i nostri amici asiatici”, ovvero il Giappone e la Corea del sud.
Con tecnologie strategiche, Schmidt non si riferisce solamente all’intelligenza artificiale e ai computer quantistici, ma anche ai semiconduttori (i microchip), alle biotecnologie e all’energia. L’ex-CEO di Google pensa che gli Stati Uniti debbano stabilire “relazioni molto più strette con i ricercatori giapponesi, con le università giapponesi, con il Governo giapponese”, istituendo anche dei gruppi di coordinamento a Washington e a Tokyo per favorire i contatti e lo scambio di informazioni.
Il Dialogo quadrilaterale sulla sicurezza, o Quad – ovvero il gruppo informale che riunisce Australia, Giappone, India e Stati Uniti –, è per Schmidt molto utile e andrebbe trasformato in una “struttura permanente”, cioè formalizzato in una vera e propria alleanza per il contenimento cinese: è quello che avrebbe voluto fare l’ex Presidente americano Donald Trump e che vorrebbe anche Joe Biden, ma non sarà facile trovare una sintesi tra le posizioni dei vari membri.
La competitività Usa-Cina, lo scorporo delle Big Tech
D’altra parte, Schmidt pensa che tra America e Cina non dovrebbe esserci una contrapposizione e una chiusura reciproca, né che i rapporti tra i due Paesi dovrebbero essere dominati esclusivamente dalla competizione: pensa che piuttosto che vi siano degli ambiti nei quali è possibile impostare una collaborazione genuina, ad esempio sul clima (dossier comunque difficile da separare da quello energetico, estremamente strategico). Schmidt descrive la relazione tra Washington e Pechino come una “rivalità”, che può essere anche sana; lo stesso aveva detto Biden: sì alla competizione, no al conflitto.
“Non dobbiamo andare in guerra contro la Cina”, spiegava Schmidt ad Axios lo scorso marzo. “Non deve esserci una guerra fredda. Abbiamo bisogno di essere competitivi”.
In questo senso, allora, gli Stati Uniti non possono farsi superare dalla Cina sull’intelligenza artificiale, che permetterà maggiore automazione industriale e quindi maggiore competitività economica, ma anche maggiore efficienza militare (previsione del rischio, analisi dei dati raccolti, monitoraggio dei droni, senza contare le applicazioni più future).
Schmidt, probabilmente per il suo passato da dirigente di una grande società tecnologica, non guarda con favore alle iniziative – che stanno guadagnando slancio negli Stati Uniti: ne è un esempio la recente nomina di Lina Khan a capo della Federal Trade Commission – per imbrigliare il potere di mercato delle Big Tech americane e forzarne lo scorporo. Pensa che siano proposte non soltanto “rozze” ma anche dannose per gli Stati Uniti, perché potrebbero favorire l’avanzata internazionale delle aziende tecnologiche cinesi. È favorevole, al massimo, a “modifiche regolatorie relativamente piccole che migliorerebbero la concorrenza”.
I semiconduttori
Sui semiconduttori – un componente critico per tanti settori industriali (automobili, elettronica, energia) e anche per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale –, Schmidt sostiene che i soldi non saranno sufficienti a trasformare l’America nella nuova Taiwan. Si riferiva all’azienda taiwanese TSMC, che controlla da sola il 55% del mercato della fabbricazione di microchip. Un altro peso massimo del settore è la sudcoreana Samsung. Gli Stati Uniti, invece, valgono il 12%.
Oltre ai soldi, infatti (cioè il pacchetto da 50 miliardi messo a punto da Biden), c’è bisogno di tempo per sviluppare le competenze. TSMC e Samsung investiranno miliardi nella costruzione di fonderie di chip in Arizona e in Texas. Ma “per tante ragioni tecniche”, ha spiegato Schmidt, “è improbabile che queste fabbriche saranno all’avanguardia”: si produrranno cioè semiconduttori dalla grandezza di 5 nanometri, quando quelli di ultima generazione arrivano a 3. Per il momento, può andare bene.
I microchip sono al centro della corsa industriale tra America e Cina perché su questi dispositivi Pechino è rimasta indietro, a 7 nanometri: ha dunque bisogno di rifornirsi dall’esterno o non potrà soddisfare le sue ambizioni tecnologiche, che richiedono semiconduttori altamente performanti. Il piano di Biden è duplice: vuole tagliare fuori la Cina dalle forniture di chip, e contemporaneamente costruire una filiera sul suolo americano o in Paesi quanto più vicini e affidabili, in modo da garantirsene la certezza degli approvvigionamenti.
L’ex amministratore delegato di Google ritiene che le capacità della Cina nel settore siano molto vicine a quelle degli Stati Uniti e che tra i due Paesi debba esserci una sana competizione