Il 13 settembre 1993 la stretta di mano tra Rabin e Arafat diede una speranza di pace al Medioriente. Ma di quel gesto simbolico non è rimasto nulla: i palestinesi non hanno ancora uno Stato e proseguono gli attentati, i soprusi e gli attacchi militari
Trenta anni fa, il 13 settembre 1993, nel giardino della Casa Bianca a Washington il Premier laburista israeliano Yitzhak Rabin e il leader dell’Olp Yasser Arafat si stringevano la mano dinanzi a Bill Clinton, Presidente americano, sugellando quelli che sono noti come gli Accordi di Oslo e che avrebbero dovuto portare ad una duratura pace in Medio oriente e alla creazione dello stato palestinese. Avrebbero, perché di tutto il carico di speranze che questa stretta di mano portava, dopo guerre, morti, attentati, intifada, soprusi, non è rimasto nulla. Anzi: la ferma convinzione che sono stati un fiasco, più legati alle personalità dei firmatari che alla reale volontà di cambiamento.
Quattro anni dopo lo scoppio della prima intifada, nel 1991 prende il via il primo tentativo di conciliazione vero tra israeliani e palestinesi, la conferenza di Madrid, che porterà, anni dopo, al solo trattato di pace tra Israele e Giordania. Solo, perché la questione palestinese fu messa da parte, anche perché l’Olp non era riconosciuto come un interlocutore attendibile vista la miriade di gruppi palestinesi presenti, alcuni dei quali avevano lanciato vere e proprie campagne di terrore in tutto il mondo. Non solo: Arafat era stato tra i pochissimi ad appoggiare, anche all’interno della Lega Araba, Saddam Hussein nella sua invasione del Kuwait e negli eventi successivi.
Mentre si discuteva a Madrid e in Terra Santa si sparava e si moriva, a Oslo, su iniziativa norvegese, funzionari israeliani e palestinesi dell’Olp in gran segreto si riunivano più volte per trovare una soluzione. Che sfociarono appunto nella stretta di mano del 13 settembre e negli accordi che presero il nome della città norvegese e che avrebbero dovuto ridisegnare il Medio Oriente. L’idea alla base delle intese, era quella di favorire la creazione di un’amministrazione civile per i palestinesi in Cisgiordania e Gaza e, dopo cinque anni, avviare trattative sullo status permanente dei Territori. Cosa sarebbe dovuta essere questa entità permanente, non si sapeva. I palestinesi volevano uno stato indipendente, gli israeliani quasi sicuramente no.
Di fatto Oslo ha aumentato l’occupazione e il problema dei palestinesi. Perché da un lato la separazione della Cisgiordania in tre aree (A, B o C a seconda di chi le controlla e in che modo) non ha fatto altro che aumentare la presenza israeliana nelle aree condivise, aumentare le colonie in quelle palestinesi e stringere ancora di più i palestinesi in un’area ristretta. Cosa che la nascita del muro di separazione da una parte e la presa di potere di Gaza da parte di Hamas dall’altra, hanno esacerbato, impedendo di fatto la circolazione libera dei palestinesi anche nella stessa loro terra riconosciuta tale. Dall’altro lato, la nascita dell’Autorità nazionale Palestinese, l’ente amministrativo che avrebbe dovuto gestire i palestinesi fino alla nascita dello Stato, ha creato una “apartheid nell’apartheid”. Già perché il governo attuale, nella persona del suo presidente, è in carica sin dalla sua prima elezione nel 2005. Da allora, nessuna elezione, nessun cambiamento, rendendo ancora più difficile la vita ai palestinesi. È per questo che, sono convinto, dalla situazione o problema palestinese, siamo ora passati alla situazione o problema dei palestinesi. Perché di questo parliamo, dei cittadini di uno stato che non ci sarà mai, oramai è chiaro.
Secondo alcuni, soprattutto analisti palestinesi, Oslo è fallito nel momento stesso che è stato concepito. Anche perché c’era e c’è un problema culturale nella comunità palestinese, dimostrata dal fatto che ad oggi nessuno (o pochi) ha mai manifestato per rimuovere il Presidente Mahmoud Abbas, nonostante la maggioranza dei palestinesi non lo voglia. La gestione di uno stato in questi termini sarebbe stata difficile. Ma poi, che stato? Uno i cui confini sono tutti (ad eccezione dell’area di Gaza) con Israele. Una sorta di San Marino o Vaticano per l’Italia, o Andorra per la Spagna. Uno stato che non ha risorse, non batte moneta, che anche a causa della propria classe dirigente si è isolato da molti paesi arabi che prima lo sostenevano. Non a caso, non sono in pochi nei Territori che sono convinti che l’unica soluzione sia la dissoluzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, cosa che di fatto sancirebbe l’occupazione israeliana dei territori con tutto quello che comporta nel diritto internazionale. Dopotutto, Israele non ha fatto molto per far sì che nascesse lo stato palestinese, anche giustamente dal suo punto di vista.
Per analisti israeliani, invece, la morte di Rabin per mano dell’estremista di destra Yigal Amir, ha sancito la fine di Oslo. I governi di destra che si sono succeduti dopo Rabin, un Arafat non più leader così carismatico, la mancata attuazione di diversi punti di Olso 1993 ed altri ingredienti portarono nel 2000 al fallimento di Oslo 2, l’accordo che avrebbe dovuto definire tutto quello che non era stato definito sette anni prima, come lo status di Gerusalemme, i confini, i profughi, le risorse. Risultato? Il limbo nel quale si vive oggi.
Oramai non si sa più a cosa credere: l’ipotesi due stati pare definitivamente tramontata, nonostante Europa e Usa spingano sempre in questa direzione; qualcuno parla di federazione, altri di uno stato. Ma si rischierebbe una sorta di modello cinese, dove però quelle che dovrebbero essere provincie autonome come Xinjiang e Xizang (il Tibet) di fatto sono territori occupati dove non c’è alcun tipo di libertà, neanche per i musulmani farsi crescere la barba o farsi chiamare Mohammad.