Finora gli esportatori italiani hanno contenuto gli effetti delle nuove barriere tariffarie Usa. Ma potrebbero essere molto esposti alla prossima ondata protezionista
Se nel 2016 si fossero ratificati i due accordi commerciali plurilaterali, allora definiti partenariati, che riguardavano gli scambi di beni e servizi tra i Paesi che affacciano sull’Oceano Pacifico (TPP, Partenariato transpacifico) e quelli tra gli Usa e l’Ue (TTIP, Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti) questo articolo, come molti altri, non sarebbe mai stato scritto. I Paesi coinvolti in questi due trattati avrebbero rappresentato il 60% del Pil mondiale contribuendo ad alimentare gli scambi internazionali di beni grazie a regole comuni. L’elezione di Trump a novembre 2016 ha invertito – per ora – il corso della storia, accelerando un ritorno al passato per un mondo profondamente cambiato.
Nei primi nove mesi del 2018 il Governo Usa ha introdotto nuovi dazi alle importazioni su una lunga serie di prodotti. Nel complesso, le tariffe (incluse quelle preesistenti al 2018) colpiscono quasi il 15% dell’import Usa. Tale quota sembra destinata ad aumentare nei prossimi mesi principalmente a causa del mancato accordo commerciale tra Cina e Usa.
La Cina è il principale target delle misure daziarie. Segue l’Ue, uno dei più importanti fornitori di metalli negli Usa e, con Giappone e Corea del Sud, tra i maggiori esportatori di autoveicoli.
Per l’Italia le sanzioni commerciali Usa potrebbero arrivare non solo in quanto appartenente all’Ue ma anche per l’intensità degli scambi che ha con il Paese a stelle e strisce. Secondo il rapporto di maggio del Dipartimento del Tesoro americano l’Italia è attualmente un sorvegliato speciale, in quanto ha contabilizzato un surplus commerciale con gli Usa (32 miliardi di dollari) e un surplus di parte corrente (pari al 2,5% del Pil) superiore al livello di soglia stabilito che è di 20 miliardi e del 2% del Pil. È invece assolta per interventi sleali sul mercato delle valute, terzo indicatore di sorveglianza.
L’intenso legame produttivo e commerciale tra Usa e Italia rende la guerra commerciale innescata dall’amministrazione Trump un elemento di preoccupazione per la debolezza strutturale dell’economia italiana minando la sua principale fonte di crescita: le esportazioni. Gli Usa, infatti, rappresentano il primo mercato di sbocco extra-europeo delle merci italiane e il terzo assoluto, dopo Germania e Francia. Intense, anche, le relazioni economiche dirette essendo il primo mercato di localizzazione degli investimenti italiani all’estero e il Paese con il più elevato numero di imprese italiane controllate dall’estero.
Per il momento l’unico settore colpito dai dazi è quello dei metalli di base, relativamente poco esposto, sia perché non è particolarmente aperto agli scambi con l’estero sia perché l’export non è specializzato nel mercato Usa. In questi ultimi 12 mesi gli esportatori italiani di acciaio e alluminio sono riusciti a difendere le loro quote di mercato americane nonostante i dazi abbiano comportato una contrazione delle importazioni Usa di acciaio e alluminio dal mondo. La possibile strategia adottata dagli esportatori italiani di acciaio negli Usa potrebbe essere quella di compensare la perdita di competitività per i maggiori dazi riducendo i loro prezzi in dollari.
Il prossimo settore nel mirino dei dazi Usa è quello degli alimentari e bevande, che colpirebbe quasi il 60% del comparto italiano destinato al mercato americano, nel caso in cui la risoluzione della disputa tra Airbus e Boeing in sede WTO desse il via libera ai dazi. L’effetto di questi potenziali dazi sulle esportazioni italiane colpite è difficile da quantificare poiché si tratta di prodotti di elevata qualità con una domanda rigida al prezzo che entro certi limiti potrebbero anche sopportare l’aggravio dei dazi. Oltre alla presenza diretta sul mercato Usa l’Italia è anche ben integrata nei processi produttivi frammentati a livello internazionale, che amplificano la connessione diretta dell’industria italiana con l’economia Usa, come ad esempio gli autoveicoli. Considerando anche queste connessioni indirette, il peso del mercato Usa per l’export manifatturiero italiano sale a quasi il 15% dal 9,5. Nel caso degli autoveicoli raggiunge addirittura un terzo delle vendite estere. Questi numeri non includono, infine, i possibili effetti delle ritorsioni tariffarie degli altri Paesi ai dazi Usa, che colpiscono le produzioni negli Usa e, indirettamente, gli input italiani incorporati in esse.
L’effetto più persistente dei dazi consiste, quindi, nella distorsione e distruzione delle catene del valore che legano le produzioni Usa a quelle del resto del mondo. Quasi il 60% dei dazi Usa, infatti, riguarda beni intermedi. Ciò accelera i processi, già in corso, di regionalizzazione delle GVC all’interno delle macro-aree mondiali e di spostamento del baricentro degli scambi verso l’Asia.
Dazi e contro-dazi sono un gioco a somma negativa, in cui tutti i partecipanti perdono. L’unica inversione di tendenza potrebbe essere attuata dall’Europa se assumesse il ruolo di leadership per riformare la governance globale degli scambi.
@MontaninoUSA
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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