I rappresentanti delle varie fazioni palestinesi, tra cui Fatah e Hamas, si sono incontrati al Cremlino dal 29 febbraio al 2 marzo con l’obiettivo di trovare un’unità politica. L’incontro è stato aperto dal Ministro degli Esteri russo Lavrov.
La politica palestinese cerca la propria unità a Mosca. Il governo russo, che da sempre tiene sotto la sua ala protettiva Ramallah e le varie fazioni in diaspora, ha convocato tutti per una tre giorni all’ombra del Cremlino per tentare una riconciliazione. Soprattutto tra Fatah e Hamas, un obiettivo che già in molti in passato, soprattutto paesi arabi, hanno fallito, dal 2007, da quando il gruppo che controlla Gaza ha preso possesso della Striscia e ha cacciato Fatah.
Ma il momento è di quelli che possono favorire una riconciliazione, perché c’è un comune nemico: Israele. Hamas e Fatah, infatti, si erano divisi proprio perché la seconda aveva sottoscritto gli accordi di Oslo che spingevano, tra l’altro, al riconoscimento di Israele e in qualche modo alla nascita di uno stato palestinese.
Hamas, che nel suo statuto fondativo, sia originario del 1998 che rifatto nel 2017, ha la cancellazione dello stato israeliano e il non riconoscimento di ogni accordo con gli ebrei, si è tenuta a distanza, coltivando il suo orticello nella Striscia, non accettando neanche di entrare in quella Organizzazione per la Liberazione della Palestina che è l’unica rappresentante dei palestinesi a livello internazionale. Lo era anche al Palazzo di Vetro prima che l’Onu poi riconoscesse alla Palestina lo status di Osservatore.
Fatah fino ad ora ha fatto volentieri a meno di Hamas, delegando a questi il gioco sporco, visto che, almeno formalmente, aveva rinunciato alla lotta armata. Ma ha commesso errori politici, soprattutto piazzando troppa distanza tra l’establishment e i cittadini, lasciando troppo spazio ad Hamas e sodali e, soprattutto, non rinnovandosi.
L’ottuagenario presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non ha intenzione di lasciare il trono. Non convoca elezioni da quelle vinte proprio da Hamas 2006, per paura che si ripeta lo stesso risultato. Da più parti, gli è stato chiesto di cambiare quel carrozzone elefantiaco che è l’Autorità Nazionale Palestinese per essere pronta a governare anche Gaza nel dopo guerra. Il messaggio era chiaro a tutti: era indirizzato anche a lui.
Ma il presidente palestinese ha fatto finta di non sentire e, in cambio, ha concesso le dimissioni del governo alla vigilia della tre giorni moscovita.
Rassegnando le dimissioni, il premier Shtayyeh ha detto che lo faceva per spingere all’unità i palestinesi. Alla vigilia di Mosca, il ministro degli Esteri dimissionario, al-Maliki, ha detto che auspica per la Palestina un governo tecnocratico, con la più ampia partecipazione di esponenti, che possa portare il paese alle elezioni e poi alla creazione dello stato. “Ma – ha detto – senza Hamas”.
La preoccupazione è che, come successo nel 2007, soprattutto i paesi occidentali che hanno iscritto il gruppo che controlla Gaza nell’elenco dei movimenti terroristi, possano non accettare il nuovo esecutivo e bloccare il sostegno politico ed economico.
Quindi riforma dell’Autorità Nazionale Palestinese e riforma di Hamas, che dovrebbe distanziarsi dalla parte militare e avvicinarsi alle fazioni palestinesi che già fanno parte dell’Olp. Oggi, il gruppo che controlla Gaza, insieme al Jihad Islamico, è fuori dall’ombrello rappresentativo palestinese. E questo, in un certo senso, gli ha dato ancora più potere, riducendo di fatto anche l’influenza della stessa Fatah.
Non solo: ma ha dato la possibilità al gruppo di Gaza di aumentare il consenso nei Territori palestinesi oltre che, ovviamente, a Gaza, soprattutto tra le nuove generazioni che, come dicevamo, vedono l’Anp e Fatah molto distanti dai loro bisogni, mentre Hamas come l’unico partito e gruppo che si batte per loro. La propaganda, qui, è fondamentale.
A Mosca i lavori sono stati aperti dal ministro degli Esteri russo Lavrov, che ha sottolineato l’importanza dell’unità dei gruppi. Tutti si sono impegnati a cercarla, ma da qui a realizzarla, dovrà passare tempo e, soprattutto, si dovranno limare tante posizioni. Certo, la guerra a Gaza aiuta in questo, perché la lotta sul campo e politica contro il comune nemico israeliano cementa l’appartenenza.
Si pone quindi il problema politico di quale governo per la Palestina. Seppure Hamas dovesse entrare nell’Olp, come la prenderebbero i paesi come Usa, Francia, Regno Unito e altri se dovesse sedere anche nel governo? Ci vorrebbero prese di posizione molto estreme da parte di Hamas, fino ad ora impensabili.
Ma è necessario tendere l’attenzione e pensare anche al dopo Abu Mazen. Diversi i nomi che circolano. In questo momento però due in particolare hanno le caratteristiche di riunire i consensi: Marwan Barghouti, incarcerato in Israele con cinque ergastoli, chiamato il Mandela palestinese e Mohammed Dahlan. Quest’ultimo è di Fatah, è originario di Gaza dove guidava il partito che controlla i Territori, prima di essere cacciato come traditore da Abu Mazen e riparare negli Emirati, dove ha lavorato agli accordi di Abramo con Israele.
Ma il momento è di quelli che possono favorire una riconciliazione, perché c’è un comune nemico: Israele. Hamas e Fatah, infatti, si erano divisi proprio perché la seconda aveva sottoscritto gli accordi di Oslo che spingevano, tra l’altro, al riconoscimento di Israele e in qualche modo alla nascita di uno stato palestinese.