I Monti Qandil segnano la frontiera tra l’Asia e il Medio Oriente: lo strategico confine abitato da sempre dai Curdi (ex Medi) non è destinato alla pace.
Il confine iracheno è, per l’Iran, la porta di accesso al Medio Oriente. Si snoda per 1458 chilometri lungo i lembi di terra più periferici della Repubblica Islamica, ma è più che mai centrale nella sua strategia geopolitica. A Sud, sulle sponde del fiume Shatt al-‘Arab che nel 1980 fu primo teatro della guerra tra Iran e Iraq, come a Nord, dove la frontiera taglia in due l’altopiano popolato a maggioranza dalle comunità curde. Qui, a cavallo e al di là del confine con la regione semi-autonoma del Kurdistan iracheno, negli ultimi mesi Teheran ha intensificato la lotta ai gruppi armati e ai partiti di opposizione curdi, nel tentativo di non perdere la presa sull’Iraq e tenere così a distanza le potenze che vorrebbero minare l’influenza iraniana dai Monti Qandil al Mar Mediterraneo. In primis, gli Stati Uniti.
L’offensiva anti-curda di Teheran è culminata, a settembre del 2018, nel lancio di sette missili Fateh-110 sulle basi del Partito democratico del Kurdistan iraniano (Kdpi) situate a Koya, oltre il confine iracheno. L’attacco, senza precedenti nel passato recente, è stato rivendicato dal Corpo delle guardie della rivoluzione islamica: un messaggio di Teheran sia alla dissidenza interna, in un momento di debolezza per gli ayatollah colpiti delle rinnovate sanzioni americane, sia agli Usa. A giugno, il Dipartimento di Stato aveva ricevuto a Washington il leader del Kdpi, Mustafa Hijri, in un vertice che aveva coinvolto i più alti gradi dell’ufficio Affari iraniani, incluso il numero uno Steven Fagin. E lo stesso Fagin, un mese più tardi, era stato nominato console generale degli Stati Uniti nel Kurdistan iracheno. Il timore a Teheran è che Washington possa sostenere i ribelli curdi con l’obiettivo di destabilizzare la Repubblica Islamica, come fece a inizio millennio l’amministrazione di George W. Bush, secondo quanto rivelato dall’ex Consigliere per la sicurezza nazionale Brent Scowcroft, e come suggerisce ora l’erede di quest’ultimo, John Bolton. In un paper pubblicato nel 2017 e intitolato Abrogating the Iran Deal: The Way Forward, Bolton, allora ambasciatore americano all’Onu, consigliava di “annunciare il sostegno degli Usa alle aspirazioni nazionali curde” in Iran e “fornire assistenza” alle minoranze così come alla “resistenza interna”.
Una simile strategia, tuttavia, si scontra – oggi come ieri − con la frammentazione interna che contraddistingue il variegato panorama curdo iraniano. Al Kdpi di Hijri, portatore di istanze federaliste e vicino al Partito democratico del Kurdistan (Kdp) iracheno di Masoud Barzani, si affiancano, e talvolta si contrappongono, sigle differenti per ideologia e padrini regionali, da cui spesso sono dipendenti anche in termini economici: il Partito per la vita libera del Kurdistan (Pjak), affiliato al Pkk in Turchia, schierato a favore della lotta armata e principale destinatario, secondo Scowcroft, del sostegno dell’amministrazione Bush; il Partito per la libertà del Kurdistan (Pak), legato anch’esso a Barzani; l’Organizzazione Khabat del Kurdistan iraniano; il Partito democratico del Kurdistan (Kdp). Se non bastasse, tra gli Anni 80 e 90 una serie di scissioni nell’ala a sinistra della galassia curda ha dato vita a tre sigle, che oggi si contendono persino la paternità del nome di partito, “Komala”: la Società dei lavoratori rivoluzionari del Kurdistan iraniano, il Partito dei lavoratori e l’Organizzazione curda del partito comunista d’Iran, schierata come il Kdpi a favore del federalismo, ma allineata con l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk), formazione irachena che si contrappone a Barzani ed è in buoni rapporti con Teheran.
La frammentazione dei curdi in Iran non si risolve nelle sole divisioni politiche, ma riguarda anche la distribuzione territoriale e il diverso grado di integrazione nella società. I circa 7 milioni di curdi che abitano la Repubblica Islamica rappresentano meno del 10% della popolazione totale (in Iraq e in Turchia superano il 20%) e sono divisi tra le province di Ilam, Kermanshah, Azeirbaigian Occidentale e Kurdistan, a ridosso del confine con l’Iraq, e quelle del Khorasan settentrionale e Razavi Khorasan, vicino alla frontiera turkmena. Complessivamente, i curdi nel Paese sono per tre quarti di fede sunnita, ciò che, nella culla dello sciismo, ne intacca il livello di “iranianeità” e la capacità di accedere ai piani più alti dell’apparato statale, come rileva lo studioso della Repubblica Islamica Walter Posch. Tuttavia, non va sottovalutato il senso di appartenenza che anche queste comunità, al pari dei più integrati curdi sciiti, nutrono nei confronti dell’Iran. Questo senso di appartenenza è radicato non solo nelle terre curde, ma in generale presso le minoranze che abitano i lembi periferici della vecchia Persia, dai baluci sunniti a Sud-Est agli azeri sciiti e turcomanni sunniti a Nord-Ovest, ed è tipico degli Stati caratterizzati da una forte identità imperiale. Un’ideologia pan-iranista che negli anni ha aiutato la Repubblica Islamica a saldare i tasselli del mosaico etnico e religioso che la compongono, nonostante le manifestazioni di malcontento che ciclicamente investono le aree più povere e il rapporto tormentato tra le minoranze e il potere centrale.
I curdi in Iran, unici nella storia in grado di dare vita a uno “Stato”, la pur fugace Repubblica di Mahabad nata e morta nel 1946, sono stati osteggiati dallo scià come dall’ayatollah Ruhollah Khomeini, che pure incassò il loro sostegno nelle prime settimane della Rivoluzione del 1979, ma si rifiutò di considerare le richieste di una maggiore autonomia. I leader politici che hanno guidato il Paese negli ultimi quattro decenni hanno trascurato, quando non apertamente avversato – come nel caso di Mahmoud Ahmadinejad -, lo sviluppo e l’integrazione delle province curde, con l’unica eccezione del riformista Muhammad Khatami, che ha acceso per qualche tempo i riflettori su queste terre e aperto le stanze del potere ai suoi abitanti. Lo stesso Hassan Rohani, che alle elezioni presidenziali del 2013 e del 2017 è stato votato in massa dai curdi, finora non ha mantenuto le promesse riguardo la ricostruzione del tessuto economico delle loro province più povere. Trascurati dal potere centrale, i curdi iraniani spesso non si sentono pienamente rappresentatati neanche dalla galassia di sigle che sostengono di lottare nel loro nome: diversi di questi gruppi, a partire dal Kdpi, sono stati messi al bando da Teheran e hanno le loro basi nel Kurdistan iracheno. Un esilio che crea disconnessione con la popolazione e fa il gioco della Repubblica Islamica.
Negli ultimi anni, l’Iran ha sfruttato la presa su partiti nazionali iracheni come Da’wa, guidato dall’alleato di Teheran Nuri al Maliki, per limitare l’azione del Kdpi, e ha fatto leva sull’influenza sul Puk per contenere Komala. Questo argine politico, unito alle specificità del panorama iraniano finora descritte, ha fatto in modo che, mentre in Siria si assisteva alla nascita della Federazione del Rojava e in Iraq al referendum per l’autonomia, poi disinnescato, nella Repubblica Islamica le province curde rimanessero relativamente silenziose. Monitorate da Teheran più per il crescente afflusso dei suoi abitanti nello Stato Islamico che per l’effettiva minaccia portata al potere centrale. E se è vero che questa minaccia continua a non sussistere, il risveglio delle tensioni con gli Stati Uniti reinveste i curdi iraniani di peso strategico. E con essi il confine che separa la Repubblica Islamica dall’Iraq.
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I Monti Qandil segnano la frontiera tra l’Asia e il Medio Oriente: lo strategico confine abitato da sempre dai Curdi (ex Medi) non è destinato alla pace.