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La Presidenta del Messico


Claudia Sheinbaum ha assunto il proprio mandato in una cerimonia carica di simbolismo. La prima donna presidente della storia del Messico giunge al potere con un sostegno generalizzato, ma affronta anche dure sfide sul piano della sicurezza, l'economia e le relazioni internazionali.

Circondata da donne indigene e afromessicane, la prima donna presidente della storia del Messico, Claudia Sheinbaum, ha voluto inaugurare il proprio mandato con una cerimonia tradizionale delle comunità originarie del suo paese nella tradizionalissima Plaza del Zócalo della capitale, l’antica Tenochtitlán degli Incas. L’intera giornata è stata attraversata da un forte simbolismo.

In primo luogo, l’assenza del Re di Spagna, in prima fila in tutte le cerimonie di insediamento dei presidenti latinoamericani, è stato escluso dalla lista degli invitati per aver ignorato la richiesta ufficiale che l’ormai ex presidente Manuel Lopez Obrador gli fece nel 2021 affinché sporgesse le scuse della monarchia spagnola per il massacro compiuto dal regno contro gli indigeni messicani durante la conquista d’America. E poi la banda presidenziale, diretta da una soldatessa dell’esercito messicano, di cui Sheinbaum è a partire da oggi la prima comandante donna della storia.

A consegnarle ufficialmente alla Camera dei Deputati il simbolo tricolore, che solo un presidente può utilizzare in Messico, è stata Ifigenia Martínez, 94enne storica dirigente della sinistra messicana, eletta ad interim presidentessa della Camera solo con l’obiettivo che fosse una donna a consegnare gli attributi presidenziali ad un’altra donna. Poche ore prima della cerimonia, la nuova segreteria della comunicazione della presidenza ha presentato il nuovo logo che accompagnerà tutte le comunicazioni ufficiali del governo Sheinbaum: si tratta della figura di una giovane messicana, bandiera in mano, che volge il proprio sguardo a sinistra.

“Oggi inizia il secondo piano della quarta trasformazione della vita pubblica del Messico”, sono state le prime parole della Presidenta di fronte a migliaia di sostenitori e simpatizzanti. Il riferimento è chiaramente al movimento iniziato con la presidenza di López Obrador, autoproclamatosi come il fautore della quarta grande trasformazione del paese dopo l’indipendenza all’inizio del XIX secolo, il programma di riforme di Benito Juárez (1861-1872), primo presidente indigeno della storia messicana, e la Rivoluzione di Pancho Villa e Emiliano Zapata del 1910-1920. Un progetto che ha lasciato sicuramente un’eredità potente per la nuova presidente. Da un lato la ricostruzione di uno stato sociale capillare ed effettivo, che ha ridotto la povertà del 5% in sei anni, ha aumentato il salario minimo del 110% per i lavoratori messicani introducendo anche l’obbligo costituzionale di mantenere il livello medio delle retribuzioni al di sopra del tasso annuo di inflazione, e che ha aumentato del 55% l’erogazione di contributi in favore delle famiglie più povere del paese. Diminuzione drastica della povertà, riduzione delle disuguaglianze, ma anche mega opere di infrastruttura (il nuovo aeroporto di Città del Messico, il controverso Tren Maya, le grandi raffinerie di Dos Bocas) hanno segnato il governo di López Obrador dal 2018 fino a martedì scorso. Il tutto si esprime in un aumento generalizzato del consumo privato (+11,5% dal 2018 ad oggi) e, dal punto di vista politico, nell’enorme successo elettorale del partito che Manuel López Obrador e altri dirigenti, tra cui Claudia Sheinbaun, hanno fondato solo 13 anni fa: il Movimiento de Regeneración Nacional (Morena) ha infatti sbancato alle elezioni del 2 giugno ottenendo non solo l’elezione diretta della nuova presidente ma anche la maggioranza all’interno del Parlamento (364 deputati su 500 e 83 senatori su 128), e il governo di 23 dei 32 stati messicani. Morena è oggi il grande “partito egemonico”, come non succedeva da decenni nella storia messicana, capace praticamente di gestire l’intero apparato statale da solo. Una condizione che ha portato molti analisti internazionali e i liberali messicani a lanciare l’allarme intorno alla tenuta democratica del sistema messicano. L’ultima riforma costituzionale approvata da López Obrador, proprio agli sgoccioli del suo mandato, introduce l’elezione diretta dei membri della magistratura, che in un panorama elettorale dominato dal partito di governo potrebbe dare alla nuova Presidenta il virtuale controllo dei tre poteri dello stato.

L’eredità lasciata dai sei anni di governo di López Obrador ha comunque alcuni risvolti che per la nuova amministrazione risultano già problematici. Dal punto di vista economico, il deficit fiscale generato dall’aumento della spesa sociale (che ammonta circa al 6%, il più altro in 35 anni di storia messicana), e la franca opposizione da parte dei settori del potere industriale al partito di governo, mettono in dubbio anche la tenuta a lungo termine del modello economico del “morenismo”, che centra l’attenzione sul benessere sociale anche a costo di rinunciare alla stabilità fiscale. Il capitolo sicurezza è poi uno dei tasti più dolenti per l’attuale esecutivo.

I sei anni di governo di López Obrador sono stati i più violenti della storia recente del Messico con più di 180.000 omicidi registrati, dovuti principalmente alle faide tra i potentissimi cartelli della droga che l’esercito e la polizia non sono riusciti a contenere in questi anni. López Obrador era giunto al potere con la promessa di abbandonare la strategia della “guerra contro il narco” cominciata ad inizio secolo col sostegno di Washington e sfociata in un vero e proprio bagno di sangue. Eppure, sebbene la militarizzazione del territorio sia effettivamente stata ridotta, le forze armate hanno assunto ruoli amministrativi chiave durante il governo di López Obrador, prendendo il controllo della nuova Guardia Nazionale o addirittura assumendo la gestione di settori storicamente in mano ai civili, come i trasporti, l’infrastruttura e l’energia. Toccherà ora a Sheinbaum non solo rivedere la strategia nell’ambito della sicurezza, ma anche fare i conti con un settore delle forze armate nettamente rafforzato nella politica messicana grazie alle decisioni prese dal presidente uscente.

“Sono madre, nonna, scienziata e donna di fede. E da oggi, per volontà del popolo messicano, il presidente costituzionale degli Stati Uniti del Messico”. Così si è definita Claudia Sheinbaum durante la cerimonia di insediamento. Sessantunenne, figlia di un chimico di origine ebreo-lituana e una biologa protagonisti delle celebri proteste universitarie che culminarono nel Massacro di Tlatelolco, il 2 ottobre del 1968, Sheinbaum è stata la prima donna della storia messicana ad ottenere un dottorato in fisica presso l’Università Autonoma del Messico. Negli anni Ottanta è stata protagonista del movimento studentesco che cominciò ad aprire la strada per la formazione di un movimento di sinistra che potesse contendere il potere nel paese. Alla guida di quel settore furono Cuauhtémoc Cárdenas, fondatore del Partido de la Revolución Democrática (PRD) a cui Sheinbaum aderí sin dall’inizio, e Andrés Manuel López Obrador, di cui l’attuale Presidenta è stata una delle principali collaboratrici negli ultimi trent’anni. Sindaca della capitale tra il 2018 e il 2023, ha lasciato il proprio incarico per dedicarsi appieno alla campagna elettorale che l’ha portata alla presidenza della repubblica.

Nel suo discorso di insediamento, la nuova presidente ha assicurato che rispetterà la divisione dei poteri e il sistema repubblicano, e approfondirà le riforme già intraprese dal suo predecessore e vero e proprio mentore politico. Dal punto di vista istituzionale Sheinbaum può contare su una situazione ideale, con il sostegno assicurato di tutti i poteri dello stato. I problemi potrebbero sorgere sul fronte della sicurezza, visto il potere di fuoco dei principali cartelli messicani che proprio in questi giorni hanno messo a ferro e fuoco la città di Sinaloa; nell’ambito economico, dove si attende una ripresa della produttività e una serie di misure per colmare il rosso in bilancio e contrastare l’inflazione; e sul fronte internazionale dove, al di là del sostegno totale ricevuto dai presidenti di sinistra del continente, una possibile vittoria di Donald Trump a novembre negli Usa potrebbe mettere alle strette il nuovo governo sul piano del contenimento delle migrazioni e su quello della relazione commerciale.

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