È stato definito uno dei Paesi in cui più si riscontrano forme di schiavismo moderno. E, di conseguenza, è tra gli Stati con la più alta percentuale di emigranti, il 12% della popolazione. A comandare, ad Asmara, sono l’esercito e l’esecutivo, con Isaias Afwerki in carica “transitoria” dal 1993
Sono passati trent’anni da quando, il 24 maggio del 1993, un referendum supportato dalle Nazioni Unite sanciva ufficialmente l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia. Da allora, poco è cambiato nel Paese che si affaccia sul mar Rosso e di quello che accade al suo interno si hanno sempre meno notizie.
L’Eritrea è infatti uno degli stati più chiusi e isolati al mondo, oltre che uno di quelli maggiormente autoritari. Dal momento dell’indipendenza, il governo è posto nelle mani di Isaias Afwerki, prima a capo del movimento di liberazione nazionale. Teoricamente, nel 1993 il potere gli era stato affidato in maniera soltanto transitoria, in attesa di elezioni: queste però non si sono mai tenute e negli anni Afwerki ha tenuto saldamente le redini del Paese, privando di fatto i cittadini eritrei di ogni diritto politico.
Oltre al voto, infatti, in Eritrea non sono previsti nemmeno i partiti di opposizione né alcuna forza che contrasti chi è al potere, mancano un’assemblea legislativa e dei limiti effettivi al potere presidenziale e dal 2001 è vietata la presenza di giornalisti internazionali. Non può quindi sorprendere che il Paese si classifichi al 174° posto su 180 nella classifica sulla libertà di stampa di Reporter senza frontiere e al 176° per quanto riguarda lo sviluppo umano, secondo l’indice redatto dall’ONU.
A comandare, ad Asmara, sono l’esecutivo e l’esercito: il secondo è infatti al centro della vita politica e fa dell’Eritrea un Paese estremamente militarizzato. A dimostrazione di questo, c’è il fatto che per la popolazione sia obbligatorio un servizio militare che è a tutti gli effetti permanente, con lo stato che decide quanto dura e se richiamare i riservisti. La leva obbligatoria è strettamente legata al lavoro forzato: le reclute sono impiegate per un tempo indefinito, senza diritti, spesso andando a fornire forza lavoro gratuita ad imprese che sono nelle mani degli uomini al potere. A causa di questo l’Eritrea è stata definita in questi giorni, insieme alla Corea del Nord, uno degli stati in cui si riscontrano maggiormente forme di schiavismo moderno. E, di conseguenza, lo stato conta tra quelli con la più alta percentuale di emigranti, il 12% della popolazione: sono 600mila i cittadini eritrei che vivono all’estero, dove hanno trovato rifugio dalla coscrizione obbligatoria e dalla repressione politica.
Buona parte della storia moderna eritrea può essere letta guardando al rapporto con l’Etiopia, il grande e ingombrante vicino. Di certo, questo vale per tutto il percorso che ha portato all’indipendenza. Dopo essere stata a lungo colonia italiana e aver vissuto un periodo sotto l’amministrazione inglese, l’Eritrea è diventata parte dell’Etiopia nel 1952 per decisione dell’ONU, con lo status di regione autonoma. L’assetto federale è durato però appena un decennio e nel 1962 le spinte imperiali etiopi hanno portato ad una completa annessione dell’Eritrea da parte di Addis Abeba. Da quel momento, ha preso vita nel Paese un forte movimento di liberazione: per lungo tempo questo si è opposto al potere centrale e nel 1991 è riuscito infine a conquistare il potere, in alleanza con il Fronte di liberazione popolare del Tigray, portando al referendum e all’indipendenza.
La relazione con l’Etiopia spiega anche la chiusura su sé stesso del Paese. Dopo il 1993, l’Eritrea è giunta rapidamente allo scontro con il governo tigrino dell’Etiopia, culminato con una guerra per questioni di confini tra il 1998 e il 2000. Con il Paese isolato a livello regionale e ancora alla ricerca di una stabilità, a pochi anni dall’indipendenza, Afwerki ha optato per una chiusura pressoché totale verso l’esterno e per una forte repressione all’interno, impedendo ogni progresso.
Qualcosa sembrava destinato a cambiare dopo il 2018, con l’avvento al potere di Abiy Ahmed ad Addis Abeba e con la conseguente normalizzazione dei rapporti tra i due stati, valsa al presidente etiope il premio Nobel. Ben presto, tuttavia, nella regione si è inserito un nuovo elemento di instabilità, ossia il conflitto tra il potere centrale etiope e la regione del Tigray, confinante con l’Eritrea. Invece che spingere Asmara ad una graduale apertura, quindi, la nuova alleanza con l’Etiopia ha facilitato il suo ingresso nella guerra, tanto più con la possibilità di rivalersi delle stesse forze tigrine con cui l’Eritrea si era scontrata negli scorsi decenni. In questi anni le truppe di Asmara sono perciò intervenute nel nord dell’Etiopia, rendendosi spesso protagoniste di violenze contro la popolazione e contro l’alto numero di rifugiati eritrei presenti nell’area.
Oggi più che mai, il destino del Paese è appeso agli eventi etiopi e a quello che accadrà in Tigray. In questi mesi il governo di Addis Abeba e i gruppi ribelli sembrano aver trovato un accordo di pace funzionante, che ha portato alla fine del conflitto. Tra i punti problematici c’è però proprio la presenza delle forze eritree, accusate dai tigrini e da numerosi osservatori internazionali di essersi ritirate soltanto parzialmente. I prossimi mesi saranno decisivi. In caso di una nuova e reale stabilità etiope, Asmara potrebbe decidere di accodarsi e di aprirsi gradualmente al mondo. Oppure, vista la riconciliazione di Addis Abeba con il Tigray, potrebbe anche optare per una nuova rottura dei rapporti con l’Etiopia, continuando il proprio isolamento.
L’Eritrea è infatti uno degli stati più chiusi e isolati al mondo, oltre che uno di quelli maggiormente autoritari. Dal momento dell’indipendenza, il governo è posto nelle mani di Isaias Afwerki, prima a capo del movimento di liberazione nazionale. Teoricamente, nel 1993 il potere gli era stato affidato in maniera soltanto transitoria, in attesa di elezioni: queste però non si sono mai tenute e negli anni Afwerki ha tenuto saldamente le redini del Paese, privando di fatto i cittadini eritrei di ogni diritto politico.