Un nuovo conflitto interno si preannuncia tra esercito e forze Ahmara. Ma la tensione è forte anche nella regione del Corno d’Africa, dopo che a fine ottobre il Primo Ministro Abiy Ahmed ha dichiarato che l’Etiopia vuole ottenere un porto.
Da settimane, ormai, il primo ministro etiope Abiy Ahmed cerca di rassicurare i propri vicini. “Il nostro esercito non ha mai preso l’iniziativa di invadere un altro stato nella sua storia, non inizieremo a farlo adesso” ha detto ad Addis Abeba, durante le celebrazioni per l’anniversario della fondazione dell’esercito federale. “Vorrei chiarire che non cerchiamo di ottenere nulla usando la forza o un’invasione”.
Le parole di Abiy Ahmed stanno però avendo un effetto molto relativo e non riescono ad abbassare la tensione che si è alzata nel corso dell’ultimo mese tra l’Etiopia e gli altri stati del Corno d’Africa. A partire dall’estate, infatti, il leader etiope ha accennato più volte alla necessità del Paese di garantirsi uno sbocco sul mare. Fino ad arrivare alle parole, chiare, pronunciate ad un incontro con investitori e rappresentanti del mondo economico: “Vogliamo ottenere un porto con mezzi pacifici, ma se questi non funzionano useremo la forza”. In seguito, gli stessi concetti sono stati ripetuti in un discorso rivolto al Parlamento, seppur in maniera meno forte. “Per i leader di Somalia, Gibuti, Eritrea ed Etiopia è cruciale iniziare delle discussioni – ha ribadito – non soltanto per il presente, ma per assicurare una pace duratura”.
In seguito, l’ipotesi di un intervento militare è stata smentita più volte. Ma chiaramente questo non è bastato ad evitare un’alzata di scudi da parte degli altri attori dell’area. Il regime eritreo si è detto “perplesso” per le dichiarazioni di Ahmed, mentre Gibuti ha reagito con parole nette. “Si dovrebbe sapere che Gibuti è uno stato sovrano, e che perciò la nostra integrità territoriale non è in discussione, né oggi né in futuro” ha sottolineato il presidente Ismaïl Omar.
Il problema dell’accesso al mare rappresenta una delle principali questioni politiche per l’Etiopia. Con i suoi 126 milioni di abitanti, questa rappresenta il più popoloso tra gli stati che non hanno sovranità su un pezzo di costa. In questo modo, tutte le merci che entrano ed escono dall’Etiopia e vengono trasportate via mare devono per forza di cose passare attraverso un porto straniero. In particolare, dal porto di Gibuti, da cui si calcola transiti il 95% dell’import-export etiope.
Le difficoltà legate alla mancanza di uno sbocco sul mare sono certamente significative, tanto più se si considera l’imponente crescita economica: nell’ultimo decennio, il Paese ha mantenuto un tasso di crescita tra il 5 e il 10%. Nel 2023 le stime parlano di un picco del 13,5, dovuto però anche al rallentamento dell’economia etiope negli scorsi anni a causa della guerra nel Tigray.
Ancora più delle questioni logistiche, a pesare sono però le dinamiche storiche e politiche. L’Etiopia, infatti, è priva di una sua costa dal 1991, anno in cui l’Eritrea è diventata indipendente. Tra il 1952 e l’inizio degli anni Novanta, Addis Abeba controllava invece il territorio eritreo e aveva potuto beneficiare di conseguenza di una lunga costa sul mar Rosso e dell’utilizzo del porto di Assab. Con l’indipendenza di Asmara, non si sono tuttavia fermate le mire di controllo etiopi sull’intera regione e il sogno di ricreare una Grande Etiopia. Ed ancora oggi la perdita dell’Eritrea è vista come un evento grave, ancor più per il fatto che ha chiuso l’Etiopia all’interno del continente, privandola di una proiezione esterna.
L’ambizione etiope di garantirsi uno sbocco sul mare non nasce perciò in questi mesi. Ma il fatto che sia riemersa prepotentemente ora non è casuale e riflette le forti difficoltà che Addis Abeba sta vivendo nel garantire una stabilità del proprio territorio. Il potere centrale è uscito da poco da un duro scontro, durato due anni, che l’ha visto opposto alle forze tigrine nel nord del Paese. Ora sembra essere già arrivato il momento di un nuovo conflitto interno, questa volta con i gruppi Amhara.
L’insoddisfazione interna agli Amhara, uno dei gruppi etnici principali in Etiopia, è cresciuta gradualmente dopo la fine del conflitto in Tigray. Fino a scoppiare quando Abiy Ahmed ha tentato di accentrare il proprio potere, mettendo fuorilegge le milizie locali e le forze armate regionali, di cui si era servito fino a poco prima contro i tigrini. In estate, alcuni gruppi armati hanno reagito prendendo il controllo di parte della regione Amhara e scatenando la reazione delle forze federali. E proprio in questi giorni sono in corso degli scontri a Lalibela, città santa e tra i centri principali dell’area.
La questione dello sbocco sul mar Rosso potrebbe quindi essere un diversivo, per distrarre l’attenzione globale dagli scontri interni all’Etiopia e dalla fragilità del Paese. Anche perché, proprio le vicende militari degli ultimi anni fanno dubitare che Addis Abeba possa permettersi di usare la forza contro uno dei propri vicini. “Siamo appena usciti da una guerra che ha visto Etiopia ed Eritrea alleate contro la sola regione del Tigray, senza che fossero in grado di sconfiggerla – ha evidenziato Martin Plaut, studioso del Corno d’Africa dell’Università di Londra, intervistato da Al Jazeera – Sembra quindi abbastanza improbabile che l’Etiopia possa agire con la forza e sconfiggere uno tra Eritrea, Gibuti, Kenya, Somalia e Sudan”.
Da settimane, ormai, il primo ministro etiope Abiy Ahmed cerca di rassicurare i propri vicini. “Il nostro esercito non ha mai preso l’iniziativa di invadere un altro stato nella sua storia, non inizieremo a farlo adesso” ha detto ad Addis Abeba, durante le celebrazioni per l’anniversario della fondazione dell’esercito federale. “Vorrei chiarire che non cerchiamo di ottenere nulla usando la forza o un’invasione”.
Le parole di Abiy Ahmed stanno però avendo un effetto molto relativo e non riescono ad abbassare la tensione che si è alzata nel corso dell’ultimo mese tra l’Etiopia e gli altri stati del Corno d’Africa. A partire dall’estate, infatti, il leader etiope ha accennato più volte alla necessità del Paese di garantirsi uno sbocco sul mare. Fino ad arrivare alle parole, chiare, pronunciate ad un incontro con investitori e rappresentanti del mondo economico: “Vogliamo ottenere un porto con mezzi pacifici, ma se questi non funzionano useremo la forza”. In seguito, gli stessi concetti sono stati ripetuti in un discorso rivolto al Parlamento, seppur in maniera meno forte. “Per i leader di Somalia, Gibuti, Eritrea ed Etiopia è cruciale iniziare delle discussioni – ha ribadito – non soltanto per il presente, ma per assicurare una pace duratura”.