A 30 anni dal genocidio del 1994, il Rwanda viene acclamato a livello internazionale come una delle principali success stories africane. Quella guidata da Paul Kagame, però, è a tutti gli effetti una dittatura, legittimata da elezioni a cui sono ammessi solo i partiti alleati con il regime.
“Il Rwanda, bisogna ricordarlo, è parecchio al centro dell’Africa – sottolineava alcuni anni fa Giovanni Carbone, direttore del Programma Africa di ISPI – Non solo o non tanto per posizione geografica, ma per la rilevanza tutto sommato sproporzionata che la capitale Kigali ha da anni assunto in un continente immenso”.
Da allora ben poco è cambiato e smentire questa affermazione sarebbe impossibile: il Rwanda è al centro delle dinamiche dell’Africa orientale e non solo, rappresenta un alleato cruciale in Africa soprattutto per gli Stati Uniti e il Regno Unito, ospita ogni anno convegni internazionali. In questi mesi, poi, l’attenzione internazionale è infatti tornata a posarsi sul Paese per l’anniversario dei trent’anni dal genocidio del 1994. Anche successivamente, Kigali è restata al centro della cronaca, per l’approvazione a Londra del meccanismo per cui i migranti che entrano illegalmente nel Regno Unito dovrebbero essere trasferiti nel Paese africano. Infine, a luglio si terranno in Rwanda le elezioni presidenziali, che con ogni probabilità vedranno la riconferma di Paul Kagame.
Se il Rwanda ricopre un ruolo così centrale, molto è dovuto al fatto che da anni rappresenti una delle principali success stories, in Africa e non solo. A politici ed osservatori è sempre piaciuto individuare delle storie di successo nel continente africano, degli stati che si distinguevano rispetto ai propri vicini e che sarebbero stati destinati ad un futuro radioso. Forse serviva ad alleviare i sensi di colpa legati al colonialismo. Forse, più semplicemente, identificare alcune eccezioni positive aiutava a confermare la convinzione che l’Africa, nel complesso, sarebbe stata peggio senza le vecchie potenze europee. La prima success story è stata la Somalia, uno stato che aveva il pregio di essere etnicamente omogeneo e che perciò non avrebbe dovuto trovare grossi ostacoli nel suo cammino verso lo sviluppo. Poi è toccato a Senegal, Uganda, Sudafrica. E ora è il turno del Rwanda.
Il piccolo stato africano si trova nella regione dei Grandi Laghi, in Africa Orientale, e con i suoi 14 milioni di abitanti è uno dei più densamente popolati del continente. Da noi è conosciuto soprattutto per il genocidio, che nel 1994 ha portato all’uccisione di 800 mila persone. Proprio a partire dal genocidio, tuttavia, il Rwanda ha iniziato ad essere visto come un possibile esempio di successo, grazie alle sue performance economiche, al miglioramento delle condizioni di vita e al ruolo sempre più significativo ritagliato dal Paese a livello internazionale.
Secondo la narrazione dominante, gran parte del merito per quanto accaduto in Rwanda andrebbe riconosciuto al suo presidente, Paul Kagame. Dopo aver vissuto a lungo in esilio in Uganda, Kagame è rientrato nel Paese proprio nel 1994 alla guida del Fronte Patriottico Ruandese (RPF), rovesciando il regime responsabile degli eccidi e fermando così le violenze. In seguito ha assunto il potere, prima di fatto e poi come presidente, dal 2000. E da allora ha guidato lo stato verso una rinascita.
Negli ultimi vent’anni, il Rwanda ha fatto segnare un incremento medio del Pil dell’8%, affermandosi come uno degli stati più in crescita a livello globale e mirando a raggiungere lo status di Paese a medio reddito entro il 2030. Ha diversificato la propria economia, riuscendo a trarre profitti dall’esportazione di materie prime e di prodotti agricoli, dal turismo e dagli investimenti esteri. E la sua capitale, Kigali, è diventata un hub dello sviluppo tecnologico, oltre ad essere costantemente lodata per la propria efficienza.
Ancora più eclatanti sono i miglioramenti che riguardano il welfare. Aiutato dalla superficie ridotta, il Paese è uno di quelli in Africa dove l’elettrificazione è più diffusa e le infrastrutture sono maggiormente curate. A livello sanitario, il 90% della popolazione è coperto da un’assicurazione di base, che sta dando i suoi effetti. I tassi di mortalità infantile si sono ridotti, la diffusione dell’HIV anche, l’aspettativa di vita è aumentata significativamente. E anche la gestione della pandemia è stata ottima.
Infine, ci sono una serie di aspetti del Rwanda che in Occidente sono particolarmente apprezzati. I bassi livelli di corruzione, l’impegno ambientale del governo. E, per quanto riguarda i diritti, spiccano la tutela della comunità LGBTQ+ e la presenza di una maggioranza femminile in parlamento, in un’area dove i diritti delle minoranze e delle donne sono spesso ignorati o violati.
I successi sbandierati dal governo e lodati dalla comunità internazionale nascondono tuttavia una realtà molto più complessa e assai meno positiva. Quella guidata da Paul Kagame è a tutti gli effetti una dittatura, che viene legittimata dall’organizzazione di elezioni a cui sono però ammessi soltanto i partiti alleati con il regime. A lungo i limiti alla democrazia sono stati giustificati con la necessità di tutelare un Paese fragile, appena uscito da una spirale di violenza. Ma in questi trent’anni il Rwanda non è stato guidato verso una democratizzazione.
Particolarmente rilevante è la repressione verso i dissidenti: oppositori politici, giornalisti e personaggi critici verso il governo di Kagame vengono regolarmente minacciati, arrestati e persino uccisi. E l’azione repressiva non si ferma all’interno dei confini ruandesi. Rwanda Classified, un lavoro di giornalismo investigativo condotto da 17 media internazionali e conclusosi da poco, rivela come siano state prese di mira anche persone fuggite in Tanzania, Sudafrica e pure in Europa. “Il Rwanda ha creato un sistema di sorveglianza e repressione, arrivando a pianificare assassinii contro i membri della sua diaspora, in particolare i giornalisti” si sottolinea.
Anche a livello regionale, l’azione di Kigali è quantomeno critica. Da anni, infatti, la Repubblica Democratica del Congo accusa il governo ruandese di sostenere il gruppo ribelle M23, attivo contro il governo di Kinshasa nella regione del Nord Kivu, al confine tra i due stati. Sebbene Kagame abbia sempre negato ogni coinvolgimento, il ruolo del Rwanda nel Paese vicino è stato confermato anche da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ed è perfettamente spiegabile con la tolleranza zero adottata da Kagame verso tutti gli oppositori politici. In Congo vive infatti una folta comunità di rifugiati ruandesi, in parte sostenitori del regime precedente fuggiti al di là del confine nel 1994, dopo la presa di potere da parte dell’RPF. Il sostegno ai gruppi ribelli si spiega quindi con la volontà di Kagame di intervenire per eliminare delle possibili sacche di resistenza in Congo, prima che queste possano diventare problematiche.
Infine, anche la straordinarietà delle performance economiche di Kigali è messa in dubbio da alcuni. Nel 2019, il Financial Times ha accusato il governo di aver manipolato i dati relativi alla crescita. E si è detto convinto che i livelli di povertà siano in realtà cresciuti in Rwanda tra il 2010 e il 2014, al contrario di quanto affermato dallo Stato.
Dei lati oscuri del Rwanda si parla poco, tuttavia, sui media occidentali. In parte, è una conseguenza del genocidio: mentre centinaia di migliaia di persone venivano uccise, le potenze mondiali non sono state in grado di reagire, ed anzi hanno continuato a sostenere il regime colpevole degli eccidi. Una volta conquistato il potere e denunciate le atrocità che erano avvenute in Rwanda, Kagame ha saputo giocare sui sensi di colpa occidentali. Soprattutto all’inizio si è garantito un ampio margine d’azione, sapendo che non sarebbe stato criticato da quei leader che erano rimasti immobili davanti agli eccidi.
In seguito, Paul Kagame è stato capace di usare al meglio il ruolo ritagliato per il proprio stato. Ha presentato il Rwanda come l’unico Paese stabile e funzionante in un’area travagliata come la regione dei Grandi Laghi. Ha reso lo stato centrale dal punto di vista militare, fornendo 6mila soldati per le missioni Onu in Africa. Infine, ponendosi come un bastione contro la crescente influenza di Russia e Cina in Africa, Kagame ha costruito delle solide alleanze con le maggiori potenze Occidentali. Per le quali è diventato ancora più complicato criticare il Rwanda e il suo Presidente, anche di fronte alle ingerenze nei Paesi vicini e alle evidenti violazioni dei diritti.
Che la situazione cambi a breve è altamente improbabile. Lo dimostra il recente accordo tra Londra e Kigali per la deportazione dei migranti, che rende il Rwanda cruciale per il Regno Unito e ancora più centrale nello scacchiere internazionale. Nessuna sorpresa, dunque, se Kagame verrà confermato per altri 7 anni con l’ennesimo plebiscito e continuerà ad essere accolto nelle cancellerie occidentali. Più complicato è invece capire quanto il Presidente goda davvero di un sostegno da parte della popolazione e quanto ancora riuscirà a regnare indisturbato. Di certo, per ora, dietro a Kagame non c’è nessuno: rivali politici o potenziali successori sono inesistenti, considerata la tendenza del Presidente ad eliminare ogni possibile nemico.
“Il Rwanda, bisogna ricordarlo, è parecchio al centro dell’Africa – sottolineava alcuni anni fa Giovanni Carbone, direttore del Programma Africa di ISPI – Non solo o non tanto per posizione geografica, ma per la rilevanza tutto sommato sproporzionata che la capitale Kigali ha da anni assunto in un continente immenso”.
Da allora ben poco è cambiato e smentire questa affermazione sarebbe impossibile: il Rwanda è al centro delle dinamiche dell’Africa orientale e non solo, rappresenta un alleato cruciale in Africa soprattutto per gli Stati Uniti e il Regno Unito, ospita ogni anno convegni internazionali. In questi mesi, poi, l’attenzione internazionale è infatti tornata a posarsi sul Paese per l’anniversario dei trent’anni dal genocidio del 1994. Anche successivamente, Kigali è restata al centro della cronaca, per l’approvazione a Londra del meccanismo per cui i migranti che entrano illegalmente nel Regno Unito dovrebbero essere trasferiti nel Paese africano. Infine, a luglio si terranno in Rwanda le elezioni presidenziali, che con ogni probabilità vedranno la riconferma di Paul Kagame.