La crisi ucraina ha lasciato non poche ripercussioni tra Israele e i Territori Palestinesi. Hamas, in grande crescita tra gli studenti, ha vinto in molte città, scalzando Fatah e l’Anp, che rischia lo scioglimento
La crisi ucraina derivata dall’invasione russa e dalla successiva guerra ha lasciato non pochi strascichi tra Israele e Territori Palestinesi. Gerusalemme da sempre è legata al mondo russofono: sia per l’alta presenza di ebrei in entrambi i Paesi in conflitto, sia per le implicazioni geopolitiche soprattutto mediorientali. Il Governo palestinese, dal canto suo, è strettamente dipendente da Mosca. Non a caso, l’Autorità nazionale palestinese è stata una delle poche realtà governative al mondo a non criticare la mossa di Putin. Neanche il premier israeliano Naftali Bennett ha criticato la decisione del presidente russo di invadere il Paese vicino, ci ha pensato invece il suo Ministro degli Esteri, Yair Lapid, e poi il Paese della stella di Davide ha preso seri provvedimenti internazionali.
Gerusalemme, dicevamo, è legata a doppio filo ai due Paesi. Sono moltissimi gli immigrati russi, in maggioranza, e ucraini in Israele. Ci sono città, come Rishon LeZion, quarta città per popolazione di Israele, non lontana da Tel Aviv, dove la presenza russa è maggioranza. La città stessa fu fondata dagli immigrati dell’ex impero alla fine del 19mo secolo. Qui ha la sua roccaforte elettorale Avigdor Lieberman, attuale ministro delle finanze, ex Ministro della Difesa, degli Esteri e vice Primo Ministro, leader del partito russofono Israel Beytenu.
Israele ha da sempre buoni rapporti con Mosca. È grazie all’appoggio russo che riesce a continuare i raid aerei contro le postazioni iraniane in Siria. Anche se guarda con circospezione lo stretto legame che Mosca ha con Ramallah, con la prima che fornirebbe aiuti militari non ufficiali alla seconda.
Allo scoppiare del conflitto, rispondendo pure agli appelli dell’ebreo Volodymyr Zelensky, Israele si è fatto subito mediatore con la Russia. Bennett è volato a Mosca e ha più volte parlato al telefono con Putin, cercando una soluzione negoziale al conflitto. Israele non ha fornito armi all’Ucraina, neanche il famoso scudo antimissile Iron Dome. Ma si è impegnata ad accogliere oltre 10mila profughi ai quali ha garantito la permanenza sul territorio israeliano per alcuni mesi. Le posizioni israeliane però più spostate oggi verso l’Ucraina, sfociate dalla iniziale equidistanza al voto israeliano favorevole in Consiglio di sicurezza Onu per la sospensione di Mosca, non hanno lasciato Putin indifferente. L’ambasciatore israeliano a Mosca è stato convocato da Lavrov e quello russo in Israele ha chiesto una posizione più equilibrata.
Nei giorni scorsi è esploso un contenzioso a seguito di una lettera inviata da Putin a Bennett con la quale chiede di autorizzare in tempi brevi il passaggio della chiesa di Alexander Nevsky, nella città vecchia di Gerusalemme, sotto il controllo di Mosca. I due paesi erano già d’accordo sulla cosa, che fu merce di scambio per la liberazione di una israeliana arrestata per droga in Russia, ma non è mai stata perfezionata. A complicare le cose, anche una telefonata di Putin ad Abu Mazen nella quale ha condannato le azioni israeliane sulla Spianata delle Moschee, ribadendo l’appoggio alla causa palestinese.
Sulla guerra in Ucraina, l’Autorità nazionale palestinese, è silente, non si espone. Per il Ministro degli Esteri palestinese, Riyad al-Maliki, i palestinesi si stanno allontanando dall’attuale conflitto in Ucraina, perché “siamo un paese sotto occupazione, non possiamo sopportare l’onere di prendere una posizione a favore di una parte a spese di un’altra e le ripercussioni di tale posizione su di noi”.
I palestinesi sono sì silenti sulla questione russa ma non mancano di rimarcare quello che ritengono un doppio modo di comportarsi dei media e dell’opinione pubblica internazionale tra l’occupazione russa dell’Ucraina e quella israeliana dei Territori Palestinesi. Lo stesso ministro al-Malik ha denunciato da giorni il fatto che il mondo simpatizza con l’Ucraina ma non fa lo stesso con la causa palestinese. Parlando a Ginevra alla 49ma sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Al-Maliki ha affermato che alla potenza occupante, Israele, “viene concesso uno status indifendibile di trattamento eccezionale che le consente di continuare a commettere crimini con totale e abietta impunità”. Sui media palestinesi, ma soprattutto sui social, i richiami a questo doppio standard sono molti. Ad esempio con vignette, nelle quali si fa riferimento ai combattenti ucraini che fabbricano molotov come partigiani eroi mentre i palestinesi che fanno lo stesso vengono additati come terroristi. Ci sono molti post dove si denuncia questo doppio standard anche sui profughi, con quelli arabi respinti e quelli ucraini accolti, o altri, dove si denuncia il fatto che mentre da un lato si condanna la Russia per l’invasione dell’Ucraina, dall’altro non si fa altrettanto con l’occupazione israeliana.
Accuse negate dai media israeliani dove anzi si parla di propaganda palestinese, di “guerra sulle ideologie”, spiegando che la questione tra i due conflitti è totalmente diversa, non fosse altro perché la Russia ha invaso uno stato legittimo, cosa che la Palestina non è, non essendo mai esistita. Anzi, come scrive il Jerusalem Post, la Russia e Putin hanno molto più in comune con palestinesi e Hamas che con Israele, come ad esempio l’assenza di elezioni, di democrazia nei loro paesi, l’assenza di stampa libera, gli arresti ed esecuzioni degli oppositori e dei critici. E come i governanti palestinesi respingono l’idea dell’esistenza di uno stato ebraico, così la Russia nega la possibilità di esistere dell’Ucraina.
Putin, come visto, è entrato a gamba tesa, per dividere ancora di più le parti, sul rinnovato ciclo di scontri sia a Gerusalemme che con la striscia di Gaza, scoppiato in occasione delle festività ebraiche pasquali e del Ramadan. Come un copione che si ripete, infiltrati da una parte e dall’altra hanno dato il via a scontri che hanno portato a centinaia di arresti e feriti oltre che a lanci di razzi da Gaza con conseguente risposta israeliana. Una situazione ciclica, dettata da provocazioni di gruppi di coloni della destra ebraica che neanche riconoscono lo Stato di Israele e dall’altro quelle di infiltrati tra i fedeli musulmani, ai quali non interessa la preghiera, ma solo inneggiare con bandiere e striscioni ad Hamas, lanciare fuochi di artificio e pietre contro poliziotti e realizzare barricate sulla Spianata.
In mezzo, due Governi che oramai hanno perso gran parte del loro controllo. Quello israeliano è sull’orlo dell’ennesima crisi e quindi delle ennesime elezioni. Le defezioni sono arrivate proprio dal partito del premier Bennett e hanno portato la conta in parlamento a 60 pari. Con i fatti della spianata delle Moschee è stato annunciato il ritiro dalla coalizione Frankenstein di Governo, che va dalla destra estrema alla sinistra passando per gli arabi, proprio di questi ultimi, e questo agevolerebbe sicuramente Netanyahu. Anche perché gli ultimi sondaggi dicono che la maggioranza degli elettori lo ritiene il più adeguato a guidare il paese, in considerazione del periodo di stabilità sul fronte sicurezza interna vissuto sotto Bibi.
Ma se Atene piange, Sparta non ride. Alle scorse elezioni comunali, Fatah è riuscita ad aggiudicarsi di misura Ramallah, Nablus e Jenin, mentre le liste indipendenti islamiche, di fatto ispirate da Hamas, hanno raccolto consensi ovunque e preso alcune città, come Hebron, Tulkarem e Al Bireh. Hamas sta riuscendo a rosicchiare sempre più consensi, soprattutto tra i giovani, una generazione che non è mai riuscita a votare alle elezioni politiche e che è stanca delle promesse e della corruzione dell’Anp a guida Abu Mazen. Le università sono diventate territorio fertile per la propaganda di Hamas, che si sta accreditando come unico difensore dei palestinesi. E da più parti si chiede lo scioglimento dell’Anp.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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Gerusalemme, dicevamo, è legata a doppio filo ai due Paesi. Sono moltissimi gli immigrati russi, in maggioranza, e ucraini in Israele. Ci sono città, come Rishon LeZion, quarta città per popolazione di Israele, non lontana da Tel Aviv, dove la presenza russa è maggioranza. La città stessa fu fondata dagli immigrati dell’ex impero alla fine del 19mo secolo. Qui ha la sua roccaforte elettorale Avigdor Lieberman, attuale ministro delle finanze, ex Ministro della Difesa, degli Esteri e vice Primo Ministro, leader del partito russofono Israel Beytenu.