Il Presidente ha capito che la congiuntura gli è favorevole e gioca la sua mano; tra messaggi di Xi Jinping e bolivarismo anti-yankee pensa che il suo bluff farà guadagnare qualcosa al suo Messico
Il Presidente messicano Andrés Manuel López Obrador non è un grande oratore: parla lentamente, fa lunghe pause, tende a ripetersi moltissimo. Ma è un oratore efficace, che sa come farsi capire dal suo pubblico di riferimento – los pobres, i poveri, specialmente quelli che vivono nel sud del paese – e che sa come far passare i concetti che gli interessano. La politica estera non è tra questi. Dice di non volersi immischiare negli affari degli altri Governi in modo che questi non si intromettano nei suoi. E quindi praticamente tutti i discorsi che tiene sono pensati per essere recepiti dall’opinione pubblica interna. A volte, però, dalla sua bocca escono parole dal respiro più ampio. Ad esempio il 24 luglio, dal castello di Chapultepec a Città del Messico, Andrés Manuel López Obrador (AMLO, più in breve) ha detto che “lo slogan ‘L’America agli americani’ ha finito per disintegrare i popoli del nostro continente”. Si tratta della frase che sintetizza la dottrina Monroe, esposta nel 1823 dall’allora presidente degli Stati Uniti James Monroe e che ancora oggi incornicia i rapporti di Washington con l’America latina.
L’occasione della frecciata di AMLO è rilevante: stava ospitando un evento di commemorazione del 238° anniversario della nascita di Simón Bolívar, il generale venezuelano da cui deriva l’ideale di bolivarismo. AMLO è un nazionalista di sinistra che, sebbene non abbia mai premuto sul pedale dell’antiamericanismo con la stessa foga dei governi di Caracas o L’Avana, sembra sentirsi più latino che norteño, dove la geografia lo collocherebbe. Il suo padre spirituale è però Benito Juárez, primo presidente indigeno del Messico. Non certo Bolívar, che ha combattuto per il Sudamerica e non ha niente a che vedere con l’indipendenza messicana; il suo progetto politico, poi, non si spingeva così tanto a nord. Quello del “Liberatore” – e il rimaneggiamento a posteriori della sua figura e del suo pensiero – è un mito essenzialmente venezuelano, modificabile all’occorrenza per legittimare una posizione e l’esatto contrario.
Ma quel 24 luglio anche AMLO ha scelto il Bolívar che gli era più utile (il panispanista, per la precisione) per dare forza a un messaggio: la necessità di “costruire”, in America latina e nei Caraibi, “qualcosa di simile all’Unione europea però legato alla nostra storia, alla nostra realtà e alle nostre identità”. Alla proposta se ne affiancava un’altra: sostituire l’Organizzazione degli stati americani (OSA) con “un organismo veramente autonomo, non lacchè di nessuno ma mediatore, su richiesta e accettazione delle parti in conflitto, in materia di diritti umani e democrazia”. L’OSA è il principale foro multilaterale del continente americano ma è di fatto uno strumento della politica estera di Washington, dove peraltro l’organizzazione ha sede. AMLO guarda al predominio della visione statunitense nella regione come a qualcosa di negativo, da contrastare: alla dottrina Monroe oppone il bolivarismo; all’OSA la CELAC, la Comunità di stati latinoamericani e caraibici promossa da un altro storico leader venezuelano, Hugo Chávez.
Il disegno di un’istituzione simile a quella europea viene riproposto da AMLO, con una forma significativamente diversa, proprio durante un vertice della CELAC a Città del Messico, il 18 settembre scorso. La Comunità in questione, disse, deve essere il punto di partenza di una cooperazione economica paragonabile alla CEE che abbia come “ideale” l’integrazione con gli Stati Uniti e il Canada. Nel giro di due mesi il piano di AMLO è cambiato e cresciuto in ambizione: non più un’unione solo latino-caraibica ma americana, continentale. A cosa si deve questo salto?
Cosa vuole Obrador
Non è chiaro. Così come non sono chiari gli obiettivi e la serietà delle intenzioni del Presidente, al di là della retorica. Del mondo al di fuori dei confini nazionali non si è mai curato, e raramente lascia la patria per viaggiare all’estero: ad oggi ha compiuto tre sole visite ufficiali, tutte negli Stati Uniti; oltre il fiume Suchiate non è mai sceso. Non è l’ironia della sorte, ma un particolare eloquente. AMLO non vuole fare del Messico il leader latinoamericano né vuole proporre veramente un’agenda regionale in aperta opposizione a quella di Washington. La prima cosa non gli interessa, la seconda non gli conviene. Perché la sua priorità categorica – la stessa dei suoi predecessori e di chi verrà dopo di lui – è mantenere buoni legami con gli Stati Uniti, soci commerciali fondamentali, a qualunque costo: lo abbiamo già visto negli anni di Donald Trump, quando ha fatto buon viso a cattivo gioco. I suoi discorsi su Monroe e sull’Unione dell’America latina e dei Caraibi sono un bluff: gli permettono di ammiccare a certi governi sudamericani di sinistra (Cuba, Venezuela, Bolivia) e di attizzarne i sentimenti anti-yankee, ricoprendo il tutto di un bolivarismo che non gli appartiene ma che è un ottimo collante ideologico. L’avversario da stuzzicare in questa complessa partita di carte sono gli Stati Uniti.
Che il piano unitarista di AMLO sia troppo superficiale per essere reale lo si nota da certe sue puntualizzazioni. Al vertice settembrino della CELAC ha elencato i tre princìpi fondanti della comunità che si immagina: “la cooperazione per lo sviluppo”, “l’aiuto reciproco” contro disuguaglianze e discriminazioni e – innanzitutto – “il non intervento e la libera autodeterminazione dei popoli”. Il non interventismo è il centro della sua dottrina politica: AMLO rifiuta l’idea che un soggetto esterno possa giudicare il suo operato interno e non vuole critiche al modo in cui governa (il fastidio per i contrappesi democratici, la militarizzazione della vita pubblica, lo statalismo). Ma allora come può appoggiare davvero un progetto economico che implica delle limitazioni alla sovranità nazionale dei membri e l’obbligo di rendere conto a un ente superiore delle scelte attuate in patria? È evidente che, se è questa la posizione del promotore, l’impresa di realizzare un’unione latino-caraibica non potrà che fallire. Anche perché la regione è molto disomogenea e molto poco integrata dal punto di vista commerciale: di passi da fare per somigliare all’Europa, insomma, ce ne sarebbero tanti.
La carta di Bolívar che AMLO ha lanciato sul tavolo non è forte quanto quella di Monroe, insuperata dal momento della sua calata; ma può essere insidiosa, visto l’andamento del gioco. Gli Stati Uniti sono impegnati in una competizione con la Cina che – così ha detto Joe Biden – li obbliga a “dominare i prodotti e le tecnologie del futuro: batterie avanzate, biotecnologie, microchip, energie pulite”. Per avere successo, hanno bisogno di riportare le catene del valore in patria o nelle immediate vicinanze, in modo da metterle al sicuro da manovre straniere e rafforzare il mercato interno. Il Messico ha capito che la congiuntura gli è favorevole: l’urgenza della sfida con Pechino potrebbe cioè indurre Washington a ribilanciare la relazione con l’America latina in termini più favorevoli per quest’ultima, sia in senso economico (flussi di investimenti nella creazione di filiere corte) che politico (ingerenza più leggera). AMLO presenta i vantaggi di questa integrazione continentale: vicinanza geografica e forza-lavoro giovane per le industrie statunitensi che sceglieranno di delocalizzare nell’emisfero piuttosto che in Asia. Ma anche i rischi di un rifiuto: se los Estados Unidos non si interessano al loro “cortile di casa”, lo farà qualcun altro. Forse proprio Pechino: la riunione della CELAC di settembre è terminata – ed ecco l’asso nella manica messicana – con un videomessaggio di Xi Jinping, che prometteva maggiore assistenza.
Tra incursioni cinesi e bolivarismo anti-Monroe, Washington non può stare troppo tranquilla: deve agire o rischia di perdere, nel lungo periodo, quell’egemonia sulle Americhe che le permette di essere una superpotenza mondiale. AMLO non vuole proporre un nuovo ordine subcontinentale, ma spera che il suo bluff farà guadagnare qualcosa al suo Messico.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
L’occasione della frecciata di AMLO è rilevante: stava ospitando un evento di commemorazione del 238° anniversario della nascita di Simón Bolívar, il generale venezuelano da cui deriva l’ideale di bolivarismo. AMLO è un nazionalista di sinistra che, sebbene non abbia mai premuto sul pedale dell’antiamericanismo con la stessa foga dei governi di Caracas o L’Avana, sembra sentirsi più latino che norteño, dove la geografia lo collocherebbe. Il suo padre spirituale è però Benito Juárez, primo presidente indigeno del Messico. Non certo Bolívar, che ha combattuto per il Sudamerica e non ha niente a che vedere con l’indipendenza messicana; il suo progetto politico, poi, non si spingeva così tanto a nord. Quello del “Liberatore” – e il rimaneggiamento a posteriori della sua figura e del suo pensiero – è un mito essenzialmente venezuelano, modificabile all’occorrenza per legittimare una posizione e l’esatto contrario.