L’invasione dell’Ucraina spinge gli Stati di confine verso ovest; a inizio marzo anche la Moldavia ha fatto domanda di ammissione alla Ue. Intanto, la russofona Transnistria si prepara al peggio
In Moldavia c’è una lingua di terra che corre da nord a sud tra il confine con l’Ucraina e il letto del fiume Nistro. Si tratta della regione separatista della Transnistria, non riconosciuta a livello internazionale e nata da una guerra civile scoppiata negli anni Novanta tra i moldavi che volevano vivere in uno stato indipendente dopo il crollo dell’Unione sovietica e i separatisti russofoni che domandavano di ricongiungersi alla Federazione russa. Mettere piede in Transnistria è come fare un viaggio nel tempo: si vedono ancora i carri armati russi T-34, simbolo della grandezza dell’Unione sovietica, richiami a falci e martelli, statue di Lenin per le strade, bandiere sovietiche, edifici squadrati di architettura russa. Per marcare la sua distanza dalla Moldova, la regione si è data un proprio assetto governativo, delle proprie leggi e una propria moneta che non ha valore al di fuori dei propri confini, né le carte internazionali funzionano al suo interno.
Questa enclave è abitata da 500.000 persone che in un referendum del 2006 hanno chiesto per il 97% l’annessione alla Russia e oggi è diventato uno dei confini da osservare da quando Vladimir Putin ha proclamato l’indipendenza delle repubbliche russofone di Donetsk e Lugansk e poi invaso il resto dell’Ucraina il 24 febbraio. È per queste similitudini che quando si parla della Transnistria la storia degli ultimi otto anni nel Donbass torna a riechieggiare e porta con sé i semi dei timori di oggi. Il legame tra la Russia e il piccolo territorio nello stato moldavo è tenuto ancora stretto dai sussidi che Mosca negli ultimi trent’anni ha inviato a Tiraspol – la città principale della regione – e dalla presenza di 1.300 truppe russe di stanza nell’enclave chiamate in missione di peacekeeping dal 1992 e a controllare le 22.000 munizioni di Cobasna, ritenuto uno dei maggiori depositi di armi in Europa. Inoltre, la popolazione che abita la Transnistria – russi, moldavi e ucraini – è frutto delle politiche di deportazione di Stalin degli anni Quaranta, che hanno funzionato così: da una parte, cittadini russi trasferiti negli stati annessi all’Unione sovietica per portare avanti una politica di russificazione dei territori, diffonderne le tradizioni, la lingua, la politica, e giustificarne il controllo, e dall’altra, lo spostamento delle popolazioni di quegli stati in Russia. Stessa prassi che il Presidente ucraino Volodymir Zelensky ha denunciato dopo due mesi di guerra.
Come molti Paesi ex sovietici, anche per la Moldova la storia è cambiata dopo la dissoluzione dell’Unione e con i primi venti di indipendenza. Quella guerra negli anni Novanta è scoppiata nella notte del 2 marzo del 1992. Tre anni prima, nel paese era stata approvata una legge sull’identità della lingua che presupponeva che quella moldava sarebbe stata scritta non più con l’alfabeto cirillico, ma con quello latino già in uso in Romania. Per il timore di un avvicinamento verso l’ovest, i transinistriani si sono ribellati e così sono intervenute le truppe della Federazione che quel conflitto l’hanno fatto vincere e non se ne sono più andate. Nulla è riuscito a fare negli anni lo stato moldavo che ha tentato, attraverso il dialogo e soluzioni pacifiche, la rimozione dai suoi territori delle truppe russe, che si trovano in Transnistria senza alcuna legittimità internazionale e senza consenso.
Una serie di esplosioni causate da granate a razzo nell’enclave, non attribuibili ancora a nessun fronte, alla fine di aprile, ha messo in allerta la Moldavia e la comunità internazionale: prima è stato colpito l’edificio del Ministero della Sicurezza della Transnistria e poi i ripetitori della radio che trasmetteva la programmazione russa. Questi eventi sono seguiti alla dichiarazione di Rustam Minnekaev, comandante ad interim del distretto militare centrale russo, che ha dichiarato: “Il controllo sul sud dell’Ucraina è un’altra via d’uscita alla Transnistria, dove ci sono anche azioni di oppressione della popolazione di lingua russa”.
Ma se il Governo moldavo aveva inizialmente commentato la frase come un’affermazione non in linea e contraddittoria rispetto alla posizione della Federazione russa a sostegno della sovranità e dell’integrità territoriale della Repubblica di Moldavia entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti, ha poi convocato una riunione del consiglio di sicurezza del paese e si è messo in allerta. Il timore è che Putin guardi a occidente per aprire un nuovo fronte della guerra e, attraverso una manovra a tenaglia, prendersi tutto e poi arrivare al mare di Odessa, a meno di cento chilometri dal confine.
“Non possiamo puntare esattamente il dito o incolpare qualcuno, ma quello che vediamo è che ci sono alcune forze all’interno della regione che lavorano per la destabilizzazione della situazione. Le autorità transnistriane hanno chiesto a tutti gli uomini in età da combattimento di non lasciare la regione, un segno che non si è ancora fuori dalla potenziale zona di pericolo”, ha spiegato il ministro degli Esteri della Moldova, Nicu Popescu, in un briefing con i giornalisti internazionali. “Abbiamo la responsabilità di mantenere la società civile unita, di considerare e stare all’erta di fronte a tutte le possibili minacce. Ci sono pochissime persone in quella regione che vogliono barattare la loro situazione esistente per entrare a far parte di una zona di guerra, ma non possiamo prevedere che cosa succederà domani o tra due settimane. Molto dipenderà dall’evoluzione della guerra in Ucraina”.
Le autorità locali in Transnistria hanno accusato l’Ucraina, mentre l’Ucraina ha incolpato la Russia di aver orchestrato le esplosioni come pretesto per un’ulteriore aggressione. Secondo gli analisti del Washington Post, è improbabile che l’esercito russo, coinvolto in una lotta per conquistare l’Ucraina orientale, sia in grado di ritagliarsi un percorso che passi per la Transnistria – a ovest – dove la popolazione, nonostante sia sostenuta da Mosca e ospiti truppe russe, è altamente improbabile che voglia essere coinvolta direttamente nella guerra.
E mentre la Moldova controlla il proprio confine orientale, apre le braccia a ovest: all’inizio di marzo, infatti, il paese – insieme a Ucraina e Georgia – ha fatto domanda per poter essere ammesso nell’Unione europea, pur volendo mantenere il suo status di neutralità, così come previsto dalla Costituzione moldava del 1994 e che nessun governo nell’arco di trent’anni ha mai pensato di modificare. “Quando pensiamo all’ingresso in Europa, la nostra visione presuppone di mantenere la nostra neutralità: essere stati membri come l’Austria, Cipro, l’Irlanda”, ha spiegato Popescu.
Da quando è cominciata l’invasione russa dell’Ucraina, secondo i dati dell’Unhcr, hanno attraversato il confine con la Moldavia oltre 400.000 persone, di cui la metà bambini, e 100.000 tra queste si sono trattenute nel Paese, che ha accolto su base pro capite il più alto numero di rifugiati di qualsiasi altra nazione europea. Alla dogana tra i due stati si vedono le code delle macchine di quelli che sono riusciti a scappare, mentre altri proseguono il loro viaggio tra i confini in autobus. Da quel momento e dopo la notizia delle esplosioni in Transnistria il sentimento generale della popolazione è un misto di preoccupazione e attesa: “Noi stiamo aiutando gli ucraini per quello che possiamo. Arrivano spaventati, ci raccontano quello che sta succedendo lì, come sono scappati e mentre li ascoltiamo, facciamo nostri i loro ricordi, che ci restano addosso. Noi rimaniamo e abbiamo altrettanta paura da chiederci: ma se domani dovesse succedere a noi, da che parte andremmo?”, racconta a Chișinău, in un albergo della capitale della Moldova, Elena, trent’anni, un figlio di tre e una tanica di benzina nel suo garage che potrebbe esserle utile per lasciare la Moldova se le cose dovessero mettersi male.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
Questa enclave è abitata da 500.000 persone che in un referendum del 2006 hanno chiesto per il 97% l’annessione alla Russia e oggi è diventato uno dei confini da osservare da quando Vladimir Putin ha proclamato l’indipendenza delle repubbliche russofone di Donetsk e Lugansk e poi invaso il resto dell’Ucraina il 24 febbraio. È per queste similitudini che quando si parla della Transnistria la storia degli ultimi otto anni nel Donbass torna a riechieggiare e porta con sé i semi dei timori di oggi. Il legame tra la Russia e il piccolo territorio nello stato moldavo è tenuto ancora stretto dai sussidi che Mosca negli ultimi trent’anni ha inviato a Tiraspol – la città principale della regione – e dalla presenza di 1.300 truppe russe di stanza nell’enclave chiamate in missione di peacekeeping dal 1992 e a controllare le 22.000 munizioni di Cobasna, ritenuto uno dei maggiori depositi di armi in Europa. Inoltre, la popolazione che abita la Transnistria – russi, moldavi e ucraini – è frutto delle politiche di deportazione di Stalin degli anni Quaranta, che hanno funzionato così: da una parte, cittadini russi trasferiti negli stati annessi all’Unione sovietica per portare avanti una politica di russificazione dei territori, diffonderne le tradizioni, la lingua, la politica, e giustificarne il controllo, e dall’altra, lo spostamento delle popolazioni di quegli stati in Russia. Stessa prassi che il Presidente ucraino Volodymir Zelensky ha denunciato dopo due mesi di guerra.