La guerra asimmetrica cinese e la trappola del debito
Il caso Montenegro: il G7 supplisce all'inerzia dell'Ue e gli Stati Uniti lanciano il B3W, ma ora Podgorica pone un problema di sicurezza comune alla Nato. Per gentile concessione di Paolo Chirafisi e Bepi Pezzulli
Il caso Montenegro: il G7 supplisce all’inerzia dell’Ue e gli Stati Uniti lanciano il B3W, ma ora Podgorica pone un problema di sicurezza comune alla Nato. Per gentile concessione di Paolo Chirafisi e Bepi Pezzulli
La costruzione dell’autostrada più costosa d’Europa (809 milioni di euro per 169,2 km d’asfalto) ha avuto inizio nel maggio del 2015, in Montenegro, allo scopo di connettere il porto adriatico di Bar inizialmente con la località di Boljare al confine con la Serbia e in prospettiva con la capitale serba Belgrado.
L’appalto, il più grande nella storia del Montenegro, è stato diviso in tre lotti e il primo (da Smokovac a Matesevo) è stato finanziato attraverso un loan agreement (per un ammontare di 943 milioni di dollari) tra il Governo di Podgorica e la finanziaria cinese Export-Import Bank of China (EXIM), braccio economico della Repubblica popolare.
Il contractor incaricato di realizzare la prima sezione dell’opera – lunga 40,8 km con 19 tunnel e 36 tra ponti e viadotti – è un altro soggetto di Stato, la China Road and Bridge Corporation (CRBC).
Ora, però, il Montenegro è l’epicentro di un caso geopolitico: a luglio scatterà la prima tranche di rimborso del prestito e Podgorica, che dovrebbe restituire una somma nell’ordine dei 36 milioni di euro, ha già dichiarato di non avere le risorse per onorarla, chiedendo di poter rifinanziare il debito verso la Cina attraverso una credit facility dell’Unione europea. Il Montenegro voleva realizzare una novazione soggettiva. In tal modo, con il subentro dell’Ue alla Cina, Podgorica si sarebbe trovata debitore della cifra verso Bruxelles piuttosto che verso Pechino. L’Ue ha declinato di fornire assistenza. “L’Europa non ripagherà i prestiti che il Montenegro e altri Stati partner nei Balcani hanno contratto con terze parti” ha dichiarato l’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borell.
Il caso illustra la strategia a lungo termine cinese, eseguita attraverso la diplomazia del debito. Il prestito di EXIM è solo un tassello del complesso mosaico in fase di assemblaggio: con il 40% del debito pubblico montenegrino nelle sue mani, circa 4,33 miliardi di euro (ovvero il 103% del suo PIL), la trappola da 943 milioni di dollari sarà solo la prima di una lunga serie di esche piazzate da Pechino lungo la strada dove si è incautamente avventurato lo Stato balcanico.
Non è chiaro se il caso è il risultato di scarsa cautela o piuttosto di consapevole affidamento nelle rapaci mani della potenza orientale operato a suo tempo dall’alta dirigenza politica del Paese, forse incentivata da fondi neri del Partito comunista cinese.
Lungo la Via della Seta, la corruzione è rampante. Nel 2009, la Banca mondiale ha interdetto dai propri programmi di finanziamento la China Communications Construction Co. (CCCC) a causa di una turbativa d’asta relativa alla costruzione di un’autostrada nelle Filippine. Nel 2018, China Harbour Engineering è stata accusata pubblicamente dal Governo del Bangladesh di aver offerto una tangente a un funzionario di Dacca in relazione a un progetto edilizio. Nel 2019, funzionari del Partito comunista cinese si infiltrarono nell’operazione di salvataggio del fondo di sviluppo malese Malaysia Berhad, inflazionando i costi dei progetti infrastrutturali da questo finanziati.
Proprio la libertà di gonfiare i costi dei grandi progetti permette a Pechino di costituire fondi neri. La Belt and road initiative è progettata per essere opaca. Limitando il controllo esterno, la mancanza di trasparenza dell’iniziativa fornisce alle aziende cinesi un vantaggio competitivo nei mercati rischiosi.
Nel caso Montenegro, res ipsa loquitur. La strategia cinese era già chiara quando, nel 2012, fu inaugurato il Forum 17+1, che produsse un certo avvicinamento diplomatico ed economico tra il dragone e un cluster di paesi dell’Europa centro-meridionale e orientale; tra questi paesi vi erano tutte le nazioni dei Balcani occidentali, ad esclusione del Kosovo che Pechino non riconosce.
Ad avvalorare questa tesi vi è anche l’analisi giuridica che attiene alle clausole capestro incorporate negli accordi contrattuali, firmati a suo tempo dal premier Milo Djukanovic.
Per il poco che è dato sapere, poiché di solito i contratti con le aziende e le banche cinesi sono coperti da segreto, l’ex Primo Ministro ha rinunciato a far inserire nel contratto le clausole standard per proteggere le proprietà dello Stato (a parte sedi diplomatiche e strutture militari); e qualora tanta negligenza non fosse sufficientemente sospetta, nei contratti è anche previsto che in caso di dispute legali la competenza territoriale per i contenziosi spetterà ai tribunali cinesi.
Di converso, le aziende appaltatrici e sub-appaltatrici cinesi inadempienti dovranno pagare interessi molto bassi e il risarcimento dovuto, in caso di ritardi, non potrà eccedere il 5% del credito concesso, indipendentemente dalla durata e dall’effetto del ritardo.
In definitiva, il gigante cinese ha avuto gioco facile nel creare un piano inclinato a danno del nano balcanico. A fronte della sostanziale immunità delle parti cinesi, in caso di inadempienza montenegrina, la EXIM, con legami diretti col Partito comunista cinese, potrà pretendere la gestione e l’uso gratuito di infrastrutture dual-use strategiche come ad esempio il porto di Bar, sul quale Pechino aveva messo gli occhi da tempo per assicurarsi un accesso al Mare Adriatico.
Si è già registrato un precedente analogo in Sri Lanka, vittima di un’analoga debt trap, in seguito alla quale il porto di Hambantota è stato ceduto in gestione per novantanove anni alla Repubblica popolare.
Anche in Pakistan, la Cina si muove con dispositivi di guerra asimmetrica basati su investimenti finanziari e infrastrutturali. Il caso è la costruzione del porto di Gwadar, non solo un avamposto sull’Oceano Indiano, a soli 400 chilometri dal vitale stretto di Hormuz, ma anche una variante strategica al passaggio obbligato di Malacca.
Il caso del Montenegro è però assai più allarmante: si tratta di un paese aderente all’Alleanza Atlantica. Una base militare cinese in pieno Mare Adriatico costituirebbe, oltre che una evidente minaccia alla sicurezza comune della Nato, una testa di ponte marittima per una penetrazione lungo la direttrice ionico-adriatica.
Visti i precedenti, appare ormai chiaro che l’elevata attenzione cinese per le infrastrutture costiere, comprensive dei porti e delle relative reti – logistiche ed energetiche – poste nell’immediato retroterra, sottende la volontà di creare non soltanto hub commerciali ed infrastrutturali, ma soprattutto reti di intelligence e di influenza militare.
Anche l’Italia, in quanto terminale occidentale del bacino ionico-adriatico, è oggetto di tentativi di penetrazione cinese. Il recente tentativo, poi sventato, di appropriarsi del porto Trieste è stato preceduto anni prima da analoghe manovre sulla sponda orientale rispetto ai porti albanesi di Durazzo e Valona; come pure la partecipazione finanziaria da parte dell’azienda cinese Luxury Real Estate Company nel porto di Zara e la fallita offerta, nel 2020, per un appalto bandito dalle autorità croate per la realizzazione di un nuovo terminal nel porto di Rijeka.
La già menzionata azienda di Stato CRBC sta costruendo il lungo ponte che congiungerà la città di Dubrovnik con la penisola di Peljesac, consentendo ai croati di raggiungere in autostrada la parte più meridionale del paese, senza dover attraversare il corridoio di Naum, in territorio bosniaco. In tale circostanza la CRBC, non potendo attuare pienamente lo schema montenegrino, ha dovuto partecipare ad una regolare gara d’appalto, vincendola però grazie a un’operazione di dumping che prevede tempi e costi di realizzazione enormemente ridotti rispetto ai concorrenti. Con quali tutele per l’ambiente, per i lavoratori e per le regole non è chiaro; e neppure con quali rischi per lo spionaggio civile e militare a danno delle infrastrutture portuali croate.
Inoltre, la presenza cinese nel porto greco del Pireo prevede già un’ulteriore espansione, anche se al momento il progetto è stato bloccato dall’azione legale da parte di numerose associazioni ambientaliste ed è avversato da gran parte dei pescatori e dalla popolazione locale.
Il caso montenegrino incarna, pertanto, il classico modello di guerra asimmetrica condotta da Pechino con una tenaglia giuridico – finanziaria basata sull’azione congiunta di banca di Stato e contractor di Stato: la prima concede il prestito, senza badare troppo alla solvibilità e alle garanzie fornite dal beneficiario, mentre il secondo si assicura l’aggiudicazione dell’appalto in esclusiva. Inoltre, i contratti contengono sempre clausole che escludono ogni controllo da parte di istituzioni statali, ivi compresi gli organi parlamentari; pertanto, quando la trappola del debito si palesa con tutti i suoi annessi tossici, è ormai troppo tardi per tentare un’efficace exit strategy.
La trappola del debito, va precisato, non è un’innovazione. Anzi, ha una lunga storia che attraversa le crisi debitorie latino-americane, asiatiche ed africane degli anni ’80 e ’90 e le procedure del Club di Parigi per i creditori pubblici e del Club di Londra per i creditori privati, con la regia delle istituzioni finanziarie multilaterali. I cinesi hanno diligentemente appreso la tecnica sviluppando, a loro volta, la capacità di usare il potere economico a fini di politica estera. Il tutto nel dormiveglia dell’Occidente, distratto dalle crisi finanziarie sue proprie, dal rigore teutonico sulla disciplina di bilancio e da altre priorità geopolitiche islamocentriche.
Di fronte a un’Ue non coesa e pertanto impreparata ad avviare un’azione strategica volta a un recupero di influenza nei Balcani, l’unico attore in grado di contrastare queste offensive pluri-vettoriali da parte della potenza asiatica è quello atlantico, ossia la Nato: essa possiede le chiavi politiche, militari, informative e culturali per reagire ad attacchi sempre più sofisticati e capillari. La rimodulazione della missione strategica della Nato per rifocalizzarla sulla Cina è perseguita dall’amministrazione Biden ma è ancora in fase di elaborazione.
Nel frattempo, davanti all’inerzia dell’Ue, ha agito il G7 che, nel vertice di Carbis Bay, in Cornovaglia, ha elaborato una strategia di difesa approvando un piano globale sulle infrastrutture per i Paesi a basso reddito in risposta alla Via della Seta. Come affermato nel comunicato della Casa Bianca, il programma possiede “alti standard di trasparenza” in opposizione all’opacità cinese. L’iniziativa, proposta su impulso americano, si chiamerà Build Back Better World (B3W).
Ma l’azione sussidiaria del G7 è ancora largamente insufficiente. Infatti, oltre alla pressione esercitata sulle infrastrutture e sui sistemi finanziari degli stati balcanici, l’altro vettore lungo il quale Pechino tenta di veicolare la sua politica di dominio è quello che fa leva sulla creazione di reti di influenza culturale soprattutto nell’ecosistema politico e sulla manipolazione informativa nell’ambito del discorso pubblico.
La strategia cinese è complementata dalla disseminazione, in Europa orientale e nei Balcani, di sedi dell’Università Fudan, degli Istituti Confucio e dei centri BRI.
Ma l’approccio cinese non si limita alla diplomazia culturale e accademica; nei Balcani Pechino esercita tutto il suo sharp power. Periodicamente, si svolgono azioni di guerra informativa e manipolazione mediatica volte ad acquisire un’influenza di carattere sistemico sull’ambiente politico, sociale e istituzionale di questi Paesi.
Le operazioni sono ormai multi-livello e multi-audience; alcune di esse sono realizzate in modo diretto, attraverso donazioni e assistenza finanziaria a istituzioni statali e a mezzi di comunicazione (ad esempio a favore dell’archivio cinematografico di stato albanese o dell’agenzia di stampa governativa della Nord Macedonia); altre, più sofisticate, agiscono attraverso la costruzione di relazioni istituzionali con associazioni imprenditoriali, centri di ricerca, comunità locali e, soprattutto con piccoli media locali.
Non mancano nemmeno la diplomazia sanitaria e l’utilizzo strumentale dei flussi turistici, facilitato dalla rimozione del visto per i viaggiatori cinesi in diverse nazioni balcaniche.
Si punta, in estrema sintesi, a legittimare una diffusa narrazione pro-cinese veicolandola su diversi canali di emissione, sia istituzionali (agenzia e media governativi, università e centri di ricerca statali) che privati attraverso l’impiego di alcune tecniche di storytelling strategico, a fini reputazionali.
L’esito dell’analisi rivela che è in atto, da parte cinese, l’impianto nel tessuto socio-politico di quasi tutte le nazioni balcaniche, di un reticolo relazionale a granularità variabile, con punti di maggiore o minore pressione in base anche alla permeabilità delle strutture impattate.
Tale reticolo, per sua natura dinamico, può essere schematizzato attraverso una matrice a due dimensioni, dove la prima è rappresentata dai vettori di influenza cinese opportunamente diversificati (mediatico, finanziario, socio-culturale, infrastrutturale, sanitario), mentre l’altra è costituita da power levels più o meno coercitivi (soft, hard, o sharp), ma ugualmente minacciosi, esercitati dal regime di Pechino.
Se ne può concludere che, per disarticolare tali reti, l’azione di contrasto dovrebbe svolgersi a vari livelli, anche nell’info-sfera, mettendo in atto strategie di influenza culturale e strumenti di storytelling mediatico, con ampio uso di contenuti contro-narrativi e contro-informativi.
Paolo Chirafisi è analista di politica estera per La Voce Repubblicana e progettista di fondi europei. Dottore in scienze politiche; Dottore in economia; Master in geopolitica & sicurezza globale (Università di Roma La Sapienza). Studia la diplomazia del debito e le infrastrutture predatorie cinesi.
Bepi Pezzulli è Direttore responsabile de La Voce Repubblicana e consulente di politica estera. Allievo del 198^ corso, Scuola Militare Nunziatella; Dottore in giurisprudenza (Luiss); Master in diritto internazionale (NYU); Juris Doctor (Columbia University). Studia l’impiego del potere economico e finanziario a fini di politica estera.
La costruzione dell’autostrada più costosa d’Europa (809 milioni di euro per 169,2 km d’asfalto) ha avuto inizio nel maggio del 2015, in Montenegro, allo scopo di connettere il porto adriatico di Bar inizialmente con la località di Boljare al confine con la Serbia e in prospettiva con la capitale serba Belgrado.
L’appalto, il più grande nella storia del Montenegro, è stato diviso in tre lotti e il primo (da Smokovac a Matesevo) è stato finanziato attraverso un loan agreement (per un ammontare di 943 milioni di dollari) tra il Governo di Podgorica e la finanziaria cinese Export-Import Bank of China (EXIM), braccio economico della Repubblica popolare.
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