I Balcani occidentali sono uno dei ring di scontro tra le potenze globali. Il Montenegro rischia di diventare un test geopolitico per l’Ue e il ruolo che intende giocare tra Cina e Usa
Lo scorso aprile il Governo del Montenegro ha chiesto ufficialmente all’Ue di ripagare il debito contratto da Podgorica con la cinese Exim Bank per la costruzione del primo tratto dell’autostrada Bar-Boljare. Il vicepremier Dritan Abazović, uno dei volti più europeisti della variopinta coalizione che sostiene l’attuale esecutivo montenegrino, aveva sottolineato come questa mossa avrebbe permesso al proprio Paese – membro Nato dal 2017 e candidato Ue – di sottrarsi all’influenza della Cina.
Per bocca del proprio portavoce Peter Stano, l’Unione ha subito risposto picche, spiegando di non potersi addossare il pagamento di debiti contratti da Paesi terzi, ma alludendo alla possibilità di aiutare la piccola repubblica adriatica in modi alternativi.
Come altre volte, una concezione economicistica e transazionale della politica estera ha inibito l’azione dell’Ue, secondo i critici. La relatrice Ue per il Kosovo, Viola von Cramon-Taubadel, per esempio, ha bollato la decisione come poco lungimirante. “Qualche tempo fa l’Ue ha sbagliato in Grecia e così la Cina si è portata a casa il porto del Pireo. Adesso il Governo cinese potrebbe ottenere porzioni di costa montenegrina”, ha sentenziato su Twitter.
Il caso ha riacceso i riflettori sulla penetrazione della Cina nei Balcani occidentali, sei Paesi – Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia del Nord, Bosnia Erzegovina e Kosovo – che sulla carta non dovrebbero avere altro futuro se non quello di entrare nell’Ue.
Prima delle valutazioni, i fatti e i numeri
L’autostrada che dovrebbe connettere la cittadina costiera di Bar (Antivari o Antibari, in italiano) con il confine serbo, e quindi con le rotte commerciali che attraversano la Serbia, è ritenuta un’infrastruttura fondamentale per il Montenegro. La prosperità della piccola repubblica adriatica dipende massicciamente dal turismo, risorsa che può rivelarsi particolarmente effimera. Come la pandemia ha dimostrato: l’anno scorso l’economia montenegrina si è contratta del 15%. Inoltre, obbligata ad allinearsi a Nato e Ue, in seguito all’invasione russa di Crimea e Donbass (2014) Podgorica ha dovuto introdurre sanzioni alla Russia, storicamente uno dei suoi investitori più munifici. Gli investimenti russi sono crollati da 123 milioni di euro (2014) a 53 (2016), trend invertito solo di recente (99 milioni, l’anno scorso).
L’ “autostrada verso il nulla”, come la chiamano i suoi detrattori, dovrebbe contribuire a rilanciare lo sviluppo del Montenegro.
Tuttavia, la conformazione orografica del paese è tale che due studi di fattibilità condotti dalla francese Louis Berger (2009) e dall’americana URS (2012) avevano stimato che il traffico eventualmente generato dalla costruzione dell’infrastruttura non sarebbe mai bastato a giustificare l’investimento. La Banca europea degli investimenti si era quindi tirata indietro.
È in questo vacuum che si è inserita la Cina. Ignorando i moniti di Bruxelles, nel 2014 Podgorica e la China Road and Bridge Corporation (CRBC) hanno siglato un contratto per realizzare il primo tratto, tra Smokovac e Mateševo (41 km), a condizioni molto favorevoli per gli operatori cinesi.
L’accordo prevede che l’85% dell’opera sia finanziato con un prestito della Exim Bank da 944 milioni di euro (tasso di interesse del 2% annuo), che ha fatto schizzare il rapporto debito pubblico – Pil del Montenegro oltre il 90%. Inoltre, l’intesa è stata finalizzata in camera caritatis, situazione che ha permesso ad alcune aziende vicine al presidente Milo Đukanović di accaparrarsi lucrosi subappalti in modo opaco.
A causa di ritardi e di inadempienze (specie in termini di protezione ambientale) da parte della CRBC, i costi sono in seguito lievitati fino a 1.3 miliardi di euro: questo primo tratto è costato qualcosa come 20 milioni di euro al km.
La prima rata del prestito avrebbe dovuto essere saldata lo scorso luglio, scadenza poi estesa dal creditore. In caso di insolvenza, in base all’accordo la Cina potrebbe ottenere come compensazione parti di territorio montenegrino. Forse proprio lo scalo di Bar, che le regalerebbe un perno sull’Adriatico, mare dove i cinesi ancora non si affacciano. La compagnia statale cinese COSCO già controlla, invece, la maggioranza della proprietà del porto greco del Pireo, il 47% di quello di Genova e il 35% di quello di Rotterdam, nei Paesi Bassi.
Trattandosi di quattro porti Nato, l’allarme che l’impetuosa percussione cinese in Europa sta generando nei corridoi del fronte transatlantico suona comprensibile.
Sfogliando il comunicato congiunto rilasciato al termine dell’ultimo summit Nato lo scorso giugno, quello che più riguarda il futuro dei Balcani occidentali non va allora cercato tanto nei due paragrafi che li menzionano (70 e 71), bensì più in alto, nei tre paragrafi relativi alla Cina (3, 55, 56). Le “ambizioni dichiarate”, la “postura assertiva” e la “crescente influenza” di Pechino sono state riconosciute come una “minaccia” e una “sfida” dall’Alleanza atlantica. Tempi duri si prospettano dunque per quei partner balcanici – Serbia in testa – che hanno eletto l’amicizia del Dragone a pilastro della propria politica estera.
La Cina nei Balcani occidentali
L’incursione cinese nei Balcani occidentali è ormai riconosciuta come un’ipoteca sempre più onerosa sul “futuro europeo” della regione. Da una decina di anni, e con rinnovata intensità dall’inizio dell’ascesa di Xi Jinping (2013), la Cina ha infatti consolidato la propria presenza nella regione, soprattutto tramite la costruzione di infrastrutture strategiche negli ambiti: trasporti, energia, sicurezza.
L’autostrada Bar–Boljare non è infatti un’eccezione. Nella regione aziende cinesi stanno costruendo anche: il ponte di Pelješac in Croazia (340 milioni di euro, in gran parte stanziati dall’Ue); le autostrade Pojate-Preljina e Novi Sad-Ruma in Serbia (850 milioni di euro); l’autostrada Preljina-Pozega, sempre in Serbia (500 milioni di euro); l’autosrada Kičevo-Ohrid, in Macedonia del Nord (375 milioni di euro) e quella Banja Luka-Prijedor, in Bosnia (297 milioni di euro). Compagnie cinesi sono inoltre coinvolte nelle costruzioni della ferrovia ad alta velocità Belgrado – Budapest (943 milioni di euro), della metro di Belgrado (3 miliardi di euro), della centrale energetica di Kostolac (293 milioni di euro), del parco industriale di Borča (330 milioni di euro).
Il dubbio si insinua legittimo: perché alcuni investimenti giudicati poco redditizi da investitori occidentali suscitano l’interesse di quelli cinesi?
Probabilmente perché l’influenza che garantiscono a Pechino supera anche l’eventuale perdita economica. Per un’ormai riconosciuta potenza globale come la Cina inserirsi nelle infrastrutture strategiche di un partner significa vincolare a sé il Paese. La gestione torbida di questi appalti facilita la tessitura di reti di relazioni inter-personali, curate spesso dalle ambasciate cinesi in loco, che garantiscono alla Repubblica popolare un’influenza reale, dietro le quinte, molto maggiore di quella percepita.
È in questo scenario che va soppesata l’opportunità di intervenire per tirare il Montenegro fuori dal pantano. Per l’Ue non si tratta solo di rimediare alla scelta scriteriata di un governicchio balcanico, ma di capire finalmente a che gioco intende giocare. I soldi non fanno la felicità, tanto meno la geopolitica.
I Balcani occidentali sono uno dei ring dove si scontrano le potenze globali. Coi suoi 620.000 abitanti e un’estensione inferiore a quella della Calabria, il dossier Montenegro è solo un test preliminare prima delle prove più impegnative: Ucraina, Mediterraneo, relazione con la Turchia, migrazioni, sicurezza cibernetica.
L’Ue deve scegliere: stare alla corda a fare il tifo (per gli Usa) o iniziare ad allenarsi per salire la scaletta, accettando che il mondo non è (diventato) quell’agora multilaterale e legalista che si vaticinava al tramonto della Guerra fredda? Il silenzio degli innocenti è nobile, ma la storia rischia di essere scritta solo dai colpevoli.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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Per bocca del proprio portavoce Peter Stano, l’Unione ha subito risposto picche, spiegando di non potersi addossare il pagamento di debiti contratti da Paesi terzi, ma alludendo alla possibilità di aiutare la piccola repubblica adriatica in modi alternativi.