Ieri altri 5 morti a Yangon, in una guerra civile eterna, tra una società civile che non si rassegna a rinunciare al risultato elettorale e una giunta militare violenta e senza scrupoli
Un’altra manifestazione finisce nel sangue in Myanmar. Ieri, a Yangon, un’auto dell’esercito birmano si è scagliata contro un gruppo di persone che protestavano contro la dittatura militare. Secondo Reuters, 5 persone sarebbero morte e almeno 15 sarebbero state arrestate. Vittime civili che vanno ad aggiungersi a un bilancio già pesantissimo: secondo quanto riporta l’Assistance Association for Political Prisoners (Burma), le persone uccise dalla giunta militare da febbraio sarebbero 1303. Oltre 10mila sarebbero gli arrestati, 75 le persone condannate a morte (tra cui due bambini).
Il primo febbraio scorso i militari hanno rovesciato il Governo del Paese arrestando il Presidente Win Myint e altre importanti figure politiche del Paese, tra cui la leader della Lega nazionale per la Democrazia Aung San Suu Kyi. Il colpo di Stato è avvenuto nel giorno in cui si sarebbe dovuto riunire il Parlamento dopo le elezioni vinte dal partito di Aung San Suu Kyi contro il Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione sostenuto dai militari.
La leader birmana, insignita nel 1991 del premio Nobel per la pace, sta affrontando 11 procedimenti penali. È accusata, tra le altre cose, di frode elettorale, sedizione e corruzione. Il 10 novembre scorso due membri della Lega nazionale per la democrazia sono già stati condannati rispettivamente a 90 e 75 anni di reclusione per reati simili. Le informazioni sui procedimenti giudiziari a suo carico sono però sempre più scarse, dopo che il Governo militare ha imposto al suo collegio legale il silenzio anche con la stampa.
Sappiamo che oggi è arrivato il primo dei verdetti: il tribunale di Naypyidaw ha condannato Aung San Suu Kyi a 4 anni di prigione per incitamento al dissenso e violazione delle misure anti Covid.
La situazione in Myanmar
Intanto la situazione nel Paese si aggrava, la guerra civile ha portato a un crollo dell’economia, un aumento della povertà e alti tassi di infezione da Covid-19. Secondo il sottosegretario generale per gli affari umanitari delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, sarebbero più di 3 milioni le persone in gravi difficoltà, molti i profughi che si riversano tra Thailandia, India e Bangladesh.
Il 22 ottobre scorso, l’Onu ha ribadito di temere che le condizioni della popolazione possano peggiorare ulteriormente, dopo che migliaia di truppe sono state trasferite nel nord del Paese, dove continuano a verificarsi scontri. La giunta militare ha risposto definendo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nel Paese “un’istigazione alla violenza” e uno strumento politico per intervenire negli affari interni del Paese.
Ma intervenire negli affari interni del Paese a sostegno dell’opposizione al regime militare sembra l’unica speranza che hanno i cittadini birmani di vedere riconosciuto il risultato elettorale democratico. Ma chi può avere la forza e l’autorevolezza per mettere in un angolo il generale Min Aung Hlaing e i suoi colonnelli? Ci ha provato timidamente l’Asean, non invitando il Governo militare all’ultimo vertice di ottobre, per evitare un riconoscimento implicito che avrebbe rafforzato i generali. E ci provano le Nazioni Unite, con i limiti dovuti a una governance imbalsamata dai diritti di veto incrociati. Chi può intervenire allora? La comunità internazionale è senza una guida…
Il primo febbraio scorso i militari hanno rovesciato il Governo del Paese arrestando il Presidente Win Myint e altre importanti figure politiche del Paese, tra cui la leader della Lega nazionale per la Democrazia Aung San Suu Kyi. Il colpo di Stato è avvenuto nel giorno in cui si sarebbe dovuto riunire il Parlamento dopo le elezioni vinte dal partito di Aung San Suu Kyi contro il Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione sostenuto dai militari.