In seguito al colpo di stato, il Myanmar è diventato un perfetto racconto dell’uso e dell’abuso dei social media come arma di informazione di massa negli scenari di guerra.
Il 2 febbraio 2021, quando il Tatmadaw – le forze armate del Myanmar – ha marciato sul Parlamento, tutto è stato pubblicato subito sui social media. I carri armati e le macchine dei militari sono finiti sullo sfondo di una lezione di pilates postata quasi in tempo reale su Facebook.
Un episodio grottesco che ha segnato l’inizio di un ritorno al passato per il paese. Dalla sua indipendenza dalla Gran Bretagna (1947), il Myanmar – o Birmania, come veniva chiamato in precedenza – ha avuto una storia travagliata, la maggior parte vissuta sotto una violenta dittatura militare. Nel 2010, però, era iniziata una graduale liberalizzazione che aveva portato a elezioni multipartitiche nel 2015 e all’insediamento, un anno dopo, di un governo guidato dalla veterana leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi.
Per cinque anni si è respirata aria di libertà e di cambiamento. Nel novembre del 2019 mi trovavo in Myanmar, nella città di Yangon ed ebbi una conversazione con una ragazza che mi rimase impressa. Lei aveva circa trent’anni ed era nata e cresciuta nella vecchia capitale del Paese, nonché la sua città più popolosa. Mi raccontò di come la città si fosse colorata e animata da quando il Myanmar aveva iniziato un processo di graduale democratizzazione e marginalizzazione del Tatmadaw.
Era cresciuta in una città buia, sotto un perenne coprifuoco che non aveva mai concesso alle strade di popolarsi di locali, di musica e di giovani liberi di essere tali. Si sa: cultura, creatività, musica e giovani sono tutti elementi che non vanno d’accordo con i regimi autoritari, a maggior ragione con le dittature militari.
Per quanto breve, questo assaggio di libertà è bastato a lasciare nella popolazione una sensazione che non si dimentica più. Per questo, in seguito al colpo di stato, non c’è stata rassegnazione neanche per un secondo, ma subito voglia di combattere. Si è aperta una stagione di lotte e proteste che ha coinvolto tutta la popolazione.
Ben presto, si è passati a una vera e propria guerra civile tra la giunta militare e il Governo di Unità Nazionale (NUG), un esecutivo ombra formato da membri del partito di Aung San Suu Kyi e della società civile, spalleggiato in maniera disordinata da altri gruppi armati di resistenza alla giunta sparsi nel paese. Il fronte della resistenza è riuscito in molti casi a unire le forze con diversi rappresentanti delle minoranze etniche, superando così una frattura identitaria che da sempre caratterizza la società birmana.
Coerentemente con quanto avviene ormai in tutte le guerre dell’era digitale, in Myanmar si combatte su un fronte parallelo a quello ‘fisico’: dal 2021 lo scontro tra militari e resistenza va avanti anche sui social media. Se sul campo non vi è un chiaro vincitore, in questo duello digitale la resistenza è più di un passo avanti alla giunta. Come spesso accade, però, con l’evolversi del conflitto si è delineato uno scenario intricato, in cui entrambe le fazioni hanno sempre di più abbracciato la disinformazione come strumento chiave della loro guerra psicologica all’avversario.
Così, il Myanmar è diventato un perfetto racconto dell’uso e dell’abuso dei social media come arma di informazione di massa negli scenari di guerra.
La diffusione dei social media è stata una diretta conseguenza del processo di democratizzazione pre-golpe, che ha portato una liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni e una diffusione capillare dell’accesso alla rete. Tutto ciò è stato poi facilitato dal fatto che sempre più birmani hanno iniziato ad avere uno smartphone. Nel 2010 gli utenti internet in Myanmar si aggiravano intorno ai 600mila, mentre si prevede che nel 2024 arriveranno a 31.5 milioni (dati di Statista Market Insights e ITU). Lo stesso aumento esponenziale è avvenuto per gli utenti social: la piattaforma più utilizzata dai birmani è di gran lunga Facebook, che secondo i dati di dicembre 2023 ha più di 20 milioni di utenti, pari a circa il 36% dell’intera popolazione (dati di Napoleoncat.com).
Se già prima del colpo di stato i social si stavano affermando come un elemento centrale nella vita del paese, soprattutto per le nuove generazioni, il ritorno al potere del Tatmadaw ha ulteriormente intensificato questo trend. Dopo il golpe, il panorama mediatico del paese è profondamente cambiato, spingendo i cittadini a ripensare e adattare la propria fruizione dei media.
Una delle prime azioni portate avanti dalla giunta è stato un giro di vite sui canali di informazione indipendenti. In questo nuovo contesto, i social media hanno gradualmente sostituito i media tradizionali, in quanto più liberi e flessibili. Anche i media tradizionali che ancora godono di una buona reputazione nel paese, come Mizzima e DVB, spesso non sono in grado di coprire le dinamiche a livello iper-locale. La capacità dei social media di trasformare normali cittadini in reporter sul campo, invece, permette di avere immagini e notizie da ogni luogo, anche dal più isolato. Come spesso avviene, i social network diventano uno strumento nelle mani degli oppressi. Non solo permettono alla popolazione di organizzare la propria resistenza e avere informazioni sul proprio paese, sono anche il modo più facile per raccontare ciò che accade al mondo, creando empatia e mettendo pressione sul regime. Il Tatmadaw è consapevole di tutto ciò e porta avanti una dura repressione anche in questo campo. La Ong per la difesa dei diritti digitali Access Now parla di dittatura digitale, proprio per indicare l’uso strategico da parte dei militari del loro potere sulle infrastrutture digitali per controllare le capacità di accesso e condivisione delle informazioni da parte della popolazione, nonché per nascondere i suoi gravi abusi. Lo fa interrompendo i servizi online, censurando e controllando i social media.
Tuttavia, anche in Myanmar sono ben noti i modi per evadere questo tipo di censura: in molti hanno fatto ricorso all’utilizzo di VPN (Virtual Private Network), mentre nei centri urbani, a questo metodo si affianca l’utilizzo di schede sim per il roaming internazionale. L’uso delle VPN, tuttavia, comporta un rischio per la sicurezza degli utenti, poiché l’esercito ha iniziato a colpire duramente le persone che possiedono applicazioni per il loro utilizzo. Il semplice fatto di avere una VPN su un telefono è visto come un atto di ribellione.
Il 13 gennaio 2022, il Ministero dei Trasporti e delle Comunicazioni (MOTC) ha pubblicato una versione aggiornata della legge sulla sicurezza informatica che vieta, salvo alcuni rari casi, l’utilizzo delle VPN. Chi ne fa uso oggi rischia la prigione.
“Ci sono stati alcuni casi dopo il colpo di Stato in cui le persone sono state imprigionate per 2-3 anni quando [i militari] hanno scoperto che avevano usato le VPN. Quindi, disinstallo Facebook, la VPN e tutte le applicazioni social prima di viaggiare” riferisce una donna di 29 anni della zona rurale di Sagaing all’International Media Support, una Ong che lavora per sostenere i media locali nei paesi colpiti da conflitti armati.
Per affinare il suo controllo digitale, il Tatmadaw ha potuto contare anche sulle tecnologie di paesi esperti nel controllo della rete. Dopo il golpe del 2021, erano emerse indiscrezioni secondo cui la Cina – che in questi anni non ha mai condannato il golpe e la repressione sulla società civile – avrebbe consegnato sofisticate apparecchiature di sorveglianza al Myanmar, e inviato dei tecnici al fine di aiutare la giunta a creare un firewall birmano.
A questo stesso scopo, sarebbero servite anche alcune tecnologie occidentali ed europee vendute al Myanmar prima che la giunta riprendesse in mano il completo controllo del paese.
La guerra digitale in corso in Myanmar, però, va ben oltre il mero controllo dei social media. Sia la resistenza che la giunta militare vogliono usare questo strumento in tutta la sua forza per plasmare la narrativa degli eventi. La giunta ha un esercito di “scagnozzi digitali”, che diffondono fake news attraverso canali Telegram o account Facebook, ad esempio etichettando vittime civili come combattenti della resistenza o anche diffondendo teorie complottiste su ingerenze esterne.
Contro i militari, invece, si è costituito un esercito social che comprende cittadini-giornalisti, influencer, celebrità, piattaforme di notizie gestite dal NUG e allineate alla resistenza, gruppi di attivisti e cellule delle PDF – grandi unità armate create o riconosciute dal NUG – esperte di media.
Le pagine Facebook e gli influencer più popolari che si appoggiano alla resistenza contano milioni di follower; i post che mostrano o esaltano gli attacchi delle PDF ricevono decine o centinaia di migliaia di reazioni. Spesso però finiscono per romanzare la guerra, esponendo cifre precise sulle perdite della giunta che non possono essere provate.
Ciò che nasce con l’obiettivo di incanalare la rabbia pubblica in una forza positiva a sostegno dello sforzo generale della resistenza, diventa in alcuni casi propaganda. Così facendo, la resistenza rischia di rendere ancora più torbido e disinformato il dibattito. Mentre le battaglie infuriano sul terreno, la strumentalizzazione dei social media da parte delle forze sul campo sta creando delle camere d’eco che presentano il conflitto, incerto e disordinato, attraverso realtà parallele.
Per la Birmania, i social media sono a tutti gli effetti uno dei campi in cui si combatte la guerra e, anche qua, tutto avviene senza esclusione di colpi. Per i civili birmani, però, in molti casi diventa difficile distinguere ciò che è falso da ciò che è vero, oppure da ciò che si vorrebbe lo fosse.
In seguito al colpo di stato, il Myanmar è diventato un perfetto racconto dell’uso e dell’abuso dei social media come arma di informazione di massa negli scenari di guerra.