Trump ha usato il suo potere per bloccare l'azione delle Nazioni Unite. La vittoria di Biden annuncia un superamento della logica dello scontro Usa-Mondo
Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e il Presidente cinese Xi Jinping alla cerimonia di apertura del secondo Belt and Road Forum a Pechino, Cina, 26 aprile 2019. REUTERS/Florence Lo
Trump ha usato il suo potere per bloccare l’azione delle Nazioni Unite. La vittoria di Biden annuncia un superamento della logica dello scontro Usa-Mondo
Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e il Presidente cinese Xi Jinping alla cerimonia di apertura del secondo Belt and Road Forum a Pechino, Cina, 26 aprile 2019. REUTERS/Florence Lo
“Le democrazie, paralizzate dalle lotte di potere, azzoppate dalla corruzione, indebolite da diseguaglianze estreme, riescono con grande difficoltà a farsi percepire utili alla vita delle persone. La paura dell’Altro è in crescita. E il sistema internazionale che avevamo costruito con tanta cura è ormai sfilacciato. Ricucirne le parti sarà un’impresa enorme”. Così scriveva Joe Biden già nel marzo 2020.
La crisi delle istituzioni internazionali, con l’Onu in prima fila, era in effetti evidente da tempo. Il quadriennio di Donald Trump, però, è risultato decisivo, una specie di scatto sul rettilineo finale, per chiudere la pagina della diplomazia così come l’avevamo conosciuta negli ultimi settant’anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Istituzioni calpestate
In un periodo in cui l’approccio multilaterale alla soluzione delle controversie è stato calpestato quotidianamente dall’amministrazione Trump, quattro grandi strappi hanno lasciato il segno: l’uscita dall’Accordo di Parigi sul clima (COP-21), firmato da tutti i Paesi del mondo. L’abbandono del trattato con l’Iran sul nucleare (JCPoA), firmato con i Paesi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la Ue. Il ritiro dal trattato sui missili nucleari di medio raggio (INF) con la Russia. E il ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità, a cui tutti i Paesi del mondo partecipano, accusata di essere al soldo del Partito comunista cinese.
Anche in passato l’Onu aveva sofferto blocchi e condizionamenti dovuti allo scontro tra Usa e Urss. Ma la leadership americana non era mai venuta a mancare, come invece nel 2020 con la pandemia di coronavirus. La caduta dell’Unione Sovietica sembrava anzi avviare la sospirata età dell’oro delle istituzioni internazionali, ma nel frattempo la storia – dichiarata frettolosamente “finita” – ricominciava a muoversi in un’altra direzione.
Da un lato, cresceva l’impazienza americana di sbarazzarsi dei condizionamenti, dei tempi, degli obblighi di consenso dei consessi multilaterali, che toglievano slancio alle operazioni politico-ideologiche di Washington, a cominciare dalle guerre in Medio Oriente degli anni 2000. Negli anni di Obama quell’impazienza fu temperata sì, ma non corretta, data l’indisponibilità di quel Presidente a reindossare i panni di garante della sicurezza mondiale – dopo le catastrofi di Iraq e Afghanistan. Dall’altro lato, nelle istituzioni internazionali crescevano in parallelo le posizioni e l’influenza (e i contributi finanziari) della Cina.
“Non importa quale Paese, quale esercito e quanto potente sia. Lo colpiremo, lo colpiremo alla testa e pagherà il prezzo del sangue, se impedirà di crescere a quella parte del mondo che si sta sviluppando”. Così parlava il Presidente cinese Xi Jinping al Palazzo del Popolo di Pechino il 20 ottobre 2020, per il Settantesimo anniversario della Guerra di Corea, proprio mentre a Nashville Trump e Biden erano impegnati nel loro secondo faccia a faccia: quasi una “dichiarazione di voto”.
Non si comprende il ritiro americano, infatti, senza considerare l’ascesa cinese. A partire dal 1978, con il periodo riformista che sciolse l’isolamento del regime e gettò le basi della futura crescita, Pechino decise di accettare tutta una serie di impegni internazionali, convenzioni multilaterali e aperture commerciali. Ma la poderosa forza economica acquisita e il peso delle nuove relazioni intessute proprio dentro le istituzioni internazionali portarono a una svolta.
Diritto internazionale e sovranità
Non solo: non bisogna trascurare un concetto ben radicato nella diplomazia cinese. Il “diritto internazionale” è visto dalla Cina, uno dei due Paesi asiatici mai colonizzato dall’Occidente, ma comunque influenzato e sfruttato in maniera sostanziale nei decenni precedenti alla costruzione della Repubblica Popolare, come uno strumento di dominio politico di parte. Già nel periodo riformista, Pechino ha avuto cura di limitare al minimo possibile le concessioni di sovranità al sistema internazionale, pur accettandone molte. Dopo l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (2001), ha smesso del tutto. Fu questa ad esempio una delle ragioni del fallimento degli Accordi sul Clima COP-15 di Copenaghen nel 2009; la Cina firmò invece quelli di Parigi del 2015 proprio perché erano stati eliminati tutti gli obblighi giuridici e i controlli esterni sul posto.
Il concetto di sovranità declinato a Pechino poggia su due pilastri. Il primo è la supremazia totale del diritto nazionale su quello internazionale. In tre gradi: sul territorio nazionale; all’estero quando ci siano cittadini o imprese cinesi coinvolte; e all’estero anche quando attività di terzi, seppure non cinesi, incidano però sulla sicurezza nazionale. Ad esempio, i contratti legati alle Nuove Vie della Seta, che investono tutta l’Eurasia, saranno dibattuti nei tribunali cinesi. E le leggi cinesi sulla cybersecurityhanno proiezione extraterritoriale.
Il secondo è lo smantellamento del sistema di “interferenze esterne” a livello internazionale, con una declinazione nuova di “multilateralismo”: va bene la cooperazione tra Paesi, ma senza cessioni di sovranità ad organi sovranazionali indipendenti. Pechino dev’essere libera di agire dovunque arrivi la continuità storica dei suoi insediamenti territoriali e delle sue comunità – quindi anche a Hong Kong e a Taiwan, per capirci. Per ottenerlo, la Cina non si è esclusa dalle istituzioni internazionali come gli Usa, ma ha deciso di modificarle dall’interno. Con successo.
Ad esempio, il 6 ottobre all’Onu la protesta di un gruppo di 39 Paesi guidati dalla Germania contro la violazione dei diritti umani nella regione dello Xinjiang non solo è stata rovesciata dal voto di 53 paesi che si sono schierati con la Cina – c’erano molti stati africani e del Medio Oriente, come Arabia Saudita ed Emirati – ma è stata accompagnata dalla reazione veemente dell’ambasciatore cinese. “Quando è troppo è troppo”, è sbottato Zhang Jun, “non accetteremo che il paese di George Floyd e dei 200.000 morti per coronavirus venga a farci la morale sui diritti umani”, sottintendendo (non a torto) una manina americana all’origine delle mozioni anti-cinesi.
Poco prima, il 20 luglio, il Ministro degli Esteri Wang Yi, inaugurando il Centro di studi sul Pensiero diplomatico di Xi Jinping, aveva attaccato le sanzioni Usa a Iran e Venezuela come ingiustificate infrazioni ai principi di “sovranità” e “integrità territoriale”. Donald Trump aveva risposto con un discorso breve quanto disastroso, aperto dalle recriminazioni sul “virus cinese”, riempito da roboanti rivendicazioni della supremazia americana nel campo dei diritti dell’uomo e dell’ecologia, e chiuso da un’invettiva sull’inutilità delle Nazioni Unite, pronunciata proprio alle Nazioni Unite.
Uno dei più plastici effetti del doppio movimento, ritiro americano versus ascesa cinese, è la firma (15 novembre 2020) del Partenariato regionale economico globale (RCEP), l’accordo commerciale più vasto del mondo. Ne fanno parte la Cina, gli Stati Asean, più – clamorosamente – quattro strettissimi alleati di Washington: Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. L’India, forse il paese più di tutti vicino all’America di Trump, ne è rimasta fuori. “È una vittoria del multilateralismo e del libero scambio”, ha commentato beffardamente Li Keqiang, numero due del regime cinese. La RCEP scalza la Trans-Pacific Partnership, siglata a febbraio 2016 sotto l’egida degli Usa di Obama, che escludeva la Cina, e poi affondata per il ritiro americano nel gennaio 2017, uno dei primi atti della presidenza Trump.
Le azioni di Biden
Tra i primi atti della presidenza Biden, invece, c’è il rientro negli Accordi di Parigi sul clima. Ma il riflusso americano non si risolve con semplici marce indietro, perché poggia su tendenze sociali ed economiche profonde: l’onda protezionista e isolazionista è alimentata dagli squilibri gravi prodotti da una globalizzazione incompleta (sì delle merci, non dei diritti personali e sociali) e diseguale. Nel frattempo, la Cina usciva vincitrice dalle tre grandi crisi del primo ventennio del secolo: le guerre americane in Medio Oriente, il crack economico-finanziario, la pandemia.
La nuova amministrazione americana tenterà insomma – per forza – di recuperare quanto perduto, e i colpi del conflitto risuoneranno anche nelle stanze delle istituzioni internazionali. Sulle due sponde della piattaforma eurasiatica, gli Stati Uniti vorranno riallacciare i rapporti con l’Europa e mantenere il vantaggio strategico nel quadrante Asia-Pacifico, trovando però nuove formule di reciproco beneficio per la cooperazione internazionale modello Washington, che altrimenti non ripartirà. La transizione ecologica sarà di certo in cima alla lista.
“Le democrazie, paralizzate dalle lotte di potere, azzoppate dalla corruzione, indebolite da diseguaglianze estreme, riescono con grande difficoltà a farsi percepire utili alla vita delle persone. La paura dell’Altro è in crescita. E il sistema internazionale che avevamo costruito con tanta cura è ormai sfilacciato. Ricucirne le parti sarà un’impresa enorme”. Così scriveva Joe Biden già nel marzo 2020.
La crisi delle istituzioni internazionali, con l’Onu in prima fila, era in effetti evidente da tempo. Il quadriennio di Donald Trump, però, è risultato decisivo, una specie di scatto sul rettilineo finale, per chiudere la pagina della diplomazia così come l’avevamo conosciuta negli ultimi settant’anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale.
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