Un impiegato della compagnia petrolifera Saudi Aramco in Arabia Saudita. REUTERS/Maxim Shemetov
Le ripercussioni del crollo del mercato petrolifero vanno oltre l’industria energetica e impongono a molti Stati di ridefinire la propria geopolitica
Un impiegato della compagnia petrolifera Saudi Aramco in Arabia Saudita. REUTERS/Maxim Shemetov
Nei primi mesi dell’anno, quando il virus condizionava ancora più pesantemente le nostre vite e i nostri pensieri, c’era chi diceva che il calo dei prezzi del petrolio – o meglio: il crollo, anche sotto lo zero – avrebbe rallentato o addirittura condannato la transizione energetica. Secondo questa tesi, il costo vantaggioso del greggio e la crisi economica causata dalla Covid-19 avrebbero disincentivato il passaggio alle fonti rinnovabili, già tutt’altro che semplice.
È un ragionamento sensato e storicamente fondato. Ma che, con il passare delle settimane, ha forse perso solidità. Molti Paesi – con l’Unione europea in prima fila – hanno visto infatti nella pandemia un’opportunità per stimolare le proprie politiche di de-carbonizzazione. Questa “svolta green” dei Governi riflette la maggiore coscienza ambientalista dell’opinione pubblica, che chiede il superamento dell’era dei combustibili fossili. Ma l’entusiasmo e le buone intenzioni non bastano, e la strada verso un futuro a impatto climatico zero rimane complicata.
La svolta “green”
La transizione energetica, in realtà, aveva reso incerto il futuro del petrolio già prima dei lockdown. Si potrebbe dire che il coronavirus abbia solo esasperato una condizione strutturale del mercato petrolifero, che appariva – e appare – caratterizzato da un ristagno della domanda e da un eccesso dell’offerta. Ce ne siamo tutti resi conto lo scorso aprile, quando i prezzi del greggio WTI (la qualità di riferimento negli Stati Uniti) sono scesi a 37 dollari sottozero perché non c’erano acquirenti. E i produttori, che non sapevano dove stoccare i barili invenduti, erano disposti a pagare purché qualcuno se li portasse via.
Ci eravamo abituati a un prezzo del petrolio che reagiva, impennandosi, a qualche crisi in Medio Oriente che provocava una situazione di penuria dell’offerta e quindi uno shock. Oggi non è più così. Per capire la fase in cui ci troviamo dobbiamo abbandonare le vecchie categorie interpretative e guardare al mondo usando lenti nuove. Anche perché lo stato del mercato del petrolio sta avendo ripercussioni che vanno ben oltre l’industria energetica, sconvolgendo equilibri consolidati e obbligando alcune nazioni a ridefinire la propria geopolitica.
Il calo della domanda e i bassi prezzi al barile minacciano innanzitutto le economie di quei Paesi che dipendono dalla vendita del greggio: non è un caso che l’Arabia Saudita, ad esempio, abbia lanciato un ambizioso piano di riforme per emanciparsi dall’oro nero. Rendite petrolifere meno corpose comportano una minore possibilità di spesa per i Governi, e dunque una riduzione della capacità di proiettare la propria influenza all’estero attraverso guerre o finanziamenti agli alleati. I produttori tradizionali devono inoltre affrontare la concorrenza di attori più o meno nuovi – come Brasile, Norvegia e Guyana – e rischiano di perdere la capacità di orientare il mercato. E assieme a questa la loro centralità. Lo hanno capito gli Emirati Arabi Uniti, che stanno portando avanti una nuova strategia estera fondata non sul petrolio ma sul controllo dei porti in Africa e nel Mediterraneo, a fini sia economici che militari. Come se non bastasse, l’Opec fatica a mantenere il ruolo di arbitro e l’Arabia Saudita non riesce a controllare la Russia: e infatti, a marzo, Riad e Mosca si sono scontrate in una “guerra dei prezzi”.
La rivoluzione dello “shale”
Ne sono cambiate di cose negli ultimi anni. Nel 2006 gli Stati Uniti importavano il 60% del petrolio che consumavano; nel 2020 – sono previsioni precedenti al coronavirus – sarebbero potuti diventarne un esportatore netto. Merito della cosiddetta “rivoluzione dello shale”, che ha trasformato il Paese nel più grande produttore al mondo di greggio (nel 2018) e di gas naturale (nel 2011). L’America continua comunque ad avere necessità di importare petrolio – di tipo pesante, perché lo shale è leggero – con cui alimentare le proprie raffinerie sulla costa del Golfo, ma ha indubbiamente ridotto la dipendenza dall’esterno. Questa posizione di minore vulnerabilità ha avuto delle ricadute notevoli in politica estera. Innanzitutto ha consentito agli Stati Uniti di disinteressarsi maggiormente del Medio Oriente, una regione in passato fondamentale per il soddisfacimento dei bisogni energetici americani. E poi ha permesso all’amministrazione Trump di procedere con maggiore durezza contro l’Iran e il Venezuela, attraverso una politica di “massima pressione” mirata ad abbattere il più possibile le esportazioni petrolifere di questi due Paesi.
Il crollo
Nel 2019 gli Stati Uniti hanno prodotto 12,2 milioni di barili di petrolio al giorno, un aumento dell’11% rispetto ai livelli del 2018. A marzo del 2020 l’output ha superato i 13 milioni, ma poi i prezzi sono precipitati e le cifre di giugno hanno restituito uno scenario diverso: 11 milioni di barili giornalieri e la consapevolezza che i valori annuali saranno inferiori a quelli del 2019. Se così dovesse essere, si tratterà del primo passo indietro dal 2016.
Già prima della pandemia c’erano diversi segnali che sembravano preannunciare per quest’anno un rallentamento della crescita, se non addirittura una crisi, dello shale oil statunitense. Il coronavirus ha portato alla luce tutte le debolezze del settore: tante aziende fortemente indebitate, costi di produzione non indifferenti e un modello di business che si basa sulla continua perforazione di nuovi pozzi. Non è detto che la potenza energetica americana sia giunta alla fine, ma di certo non si è affatto consolidata. I nuovi equilibri tra import ed export garantiscono comunque al Paese un ruolo di primo piano nel mercato del petrolio e del gas.
Come quello del greggio, anche il mercato del gas è fiacco e caratterizzato da una sovrabbondanza dell’offerta rispetto alla richiesta: un quadro che, anche in questo caso, il coronavirus è andato a peggiorare. Le statistiche, comunque, raccontano che dal 1990 al 2018 la domanda di gas naturale è raddoppiata, grazie al traino delle economie asiatiche. Particolarmente impressionante è stata la crescita del gas naturale liquefatto (GNL): nel 1990 rappresentava il 16% del commercio mondiale di gas; oggi la sua quota è salita al 46%.
Il gas naturale dell’Ue
Attualmente l’Unione europea è il maggiore importatore di gas naturale al mondo. Il 75% del gas consumato dal blocco è introdotto dall’esterno, proveniente per gran parte da un Paese solo: la Russia. Acquistare gas dalla Russia è conveniente sia da un punto di vista economico che geografico. Ma, d’altra parte, dipendere così tanto da un unico fornitore può essere rischioso, specie se quel fornitore ha già dimostrato di utilizzare le proprie esportazioni come un’arma di pressione politica (è successo più volte per la crisi in Ucraina). Bruxelles si sta quindi attrezzando per diversificare le fonti di approvvigionamento attraverso la realizzazione di nuove condotte.
Il gas naturale è una risorsa fondamentale per l’Unione europea in vista del conseguimento degli obiettivi del Green Deal, come sostituto del carbone per la generazione elettrica e come “compagno” delle rinnovabili nel mix energetico fino al 2030. Ma, considerata l’intenzione di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, le prospettive di più lungo periodo per il gas naturale sono comunque incerte.
Il gas liquefatto verso la Cina
Il mercato del gas che si allargherà di più sarà quello cinese, grazie alle politiche del Governo per ridurre l’utilizzo del carbone. Già oggi la Cina è il secondo Paese che importa più gas liquefatto (dopo il Giappone) e sta potenziando i propri terminali per poterne ricevere in quantità ancora maggiori. Donald Trump vorrebbe che Pechino acquistasse più GNL dagli Stati Uniti in modo da riequilibrare la bilancia degli scambi, ma una partnership energetica tra le due potenze sembra poco probabile. Difficilmente Pechino andrà infatti a mettere la propria sicurezza energetica nelle mani di un rivale strategico.
La Cina importa circa il 70% del petrolio (soprattutto dalla Russia e dal Medio Oriente) e il 50% del gas naturale (dall’Asia centrale) che consuma; per quanto riguarda il GNL, si rifornisce dalla Malesia, dal Qatar e dall’Australia. La salvaguardia e il rafforzamento della sicurezza energetica costituiscono pertanto due evidenti priorità per Pechino, che si prefigge di raggiungerle attraverso la Belt and Road Initiative (BRI), il grande progetto commerciale e politico annunciato nel 2013. La BRI risponde dunque anche ad uno scopo “difensivo” e non solo egemonico: diversificare cioè le rotte di approvvigionamento e garantire il transito di energia verso la Cina.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Nei primi mesi dell’anno, quando il virus condizionava ancora più pesantemente le nostre vite e i nostri pensieri, c’era chi diceva che il calo dei prezzi del petrolio – o meglio: il crollo, anche sotto lo zero – avrebbe rallentato o addirittura condannato la transizione energetica. Secondo questa tesi, il costo vantaggioso del greggio e la crisi economica causata dalla Covid-19 avrebbero disincentivato il passaggio alle fonti rinnovabili, già tutt’altro che semplice.
È un ragionamento sensato e storicamente fondato. Ma che, con il passare delle settimane, ha forse perso solidità. Molti Paesi – con l’Unione europea in prima fila – hanno visto infatti nella pandemia un’opportunità per stimolare le proprie politiche di de-carbonizzazione. Questa “svolta green” dei Governi riflette la maggiore coscienza ambientalista dell’opinione pubblica, che chiede il superamento dell’era dei combustibili fossili. Ma l’entusiasmo e le buone intenzioni non bastano, e la strada verso un futuro a impatto climatico zero rimane complicata.
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