La fine dell'embargo al Qatar siglata a gennaio è una vittoria ma, allo stesso tempo, un segno della debolezza del fronte sunnita che non può più permettersi divisioni e azzardi regionali
La fine dell’embargo al Qatar siglata a gennaio è una vittoria ma, allo stesso tempo, un segno della debolezza del fronte sunnita che non può più permettersi divisioni e azzardi regionali
L’accordo per la fine dell’embargo al Qatar siglato a inizio gennaio 2021 tra Doha e le altre monarchie del Golfo – che, guidate dall’Arabia Saudita, lo avevano imposto a giugno 2017 – rappresenta una vittoria per Doha ma, se inquadrato nel contesto più ampio dello scacchiere regionale, si può dire sia più figlio delle debolezze di tutti gli attori del frantumato fronte sunnita che non della forza di qualcuno di loro.
Il Qatar ha infatti sicuramente dimostrato la sua capacità di resistenza (finora teorizzata da più parti ma mai messa alla prova in concreto), sopravvivendo a un embargo molto duro, che in teoria avrebbe dovuto piegarlo. Ma la sua sembra una vittoria di Pirro. La Fratellanza Musulmana – l’organizzazione islamista sunnita che Doha, insieme ad Ankara, ha sostenuto in vari Paesi durante le Primavere arabe (dall’Egitto alla Tunisia, dalla Libia alla Siria) per proiettare la propria influenza regionale, suscitando le ire dei Saud e dei loro alleati sunniti che la considerano un’organizzazione terroristica – è oggi assente dalle piazze e dalle strade del Nord Africa e del Medio Oriente che ribollono. In Sudan, in Libano o in Algeria, non sono loro i protagonisti (né i coprotagonisti) delle proteste. Certo, è possibile che – come accaduto non di rado in passato – la rivoluzione la facciano le forze della società civile, laiche, progressiste, e che le forze islamiste si prendano la scena al momento delle elezioni grazie a un bacino di elettori “tradizionalisti” che non riempiono le strade durante le manifestazioni ma le urne durante il voto. Ma la differenza rispetto a dieci anni fa è visibile a occhio nudo: se nell’Egitto che si ribellava a Mubarak o nella Tunisia che cacciava Ben Alì la Fratellanza Musulmana non era forse arrivata in piazza per prima, ma a un certo punto sì e la sua presenza era palese e importante, adesso (quantomeno per ora) non è più così.
Ma non è solo l’indebolimento del puntello rappresentato dalla Fratellanza Musulmana a ridimensionare la vittoria, già di per sé più simbolica che altro, del Qatar nell’aver resistito all’embargo voluto dai Saud. L’economia della Turchia, l’altro Stato sponsor della Fratellanza Musulmana nonché quello che durante l’embargo si è fatto carico della tutela militare e della sopravvivenza economica dell’alleato qatarino, è in profonda crisi dal 2018. Il 2021 potrebbe, forse, essere l’anno in cui l’economia turca (complice anche un atteso “rimbalzo a v” dopo la pandemia di nuovo coronavirus) torni a crescere a ritmi sostenuti, ma una qualche incrinatura del sistema di potere del Presidente turco Erdogan e del suo partito Akp sembra sia avvenuta e non è ancora prevedibile se e quanto sarà rimediabile.
La fine dell’embargo rappresenta in questo senso sicuramente una chance per il Qatar di attenuare l’appiattimento su Ankara. Anche perché non è, e non sarà, solo l’economia a causare problemi alla Turchia. Il cambio di amministrazione negli Stati Uniti, e una rinnovata fiducia americana nella Nato, promettono di far pagare caro all’alleato turco il flirt con la Russia di Putin avvenuto dal 2016 in poi, con gli accordi per la spartizione delle aree di influenza in Siria e, soprattutto, con l’acquisto di forniture belliche (come i sistemi di contraerea russi S-400) ritenute incompatibili con l’appartenenza all’Alleanza atlantica. Per concludere sul Qatar, si può dire che il Paese sia uscito vincitore dall’embargo ma che la linea che lo aveva portato a scontrarsi con gli altri Paesi del Golfo sia invece molto indebolita, se non sconfitta.
Cosa significa la fine dell’embargo
La debolezza del vincitore è comunque meno palese della debolezza degli sconfitti, Arabia Saudita in testa e a seguire i suoi alleati. Non essere riusciti a piegare il piccolo Qatar con l’embargo imposto è uno smacco per Riad, che per anni ha alimentato la retorica del “tradimento” da parte di Doha, del suo flirt con l’Iran sciita oltre che dell’appoggio alla Fratellanza Musulmana. Ora tutto è stato – almeno in apparenza – perdonato. Il motivo è di nuovo una somma di debolezze, geopolitiche ed economiche. Il cambio di amministrazione negli Stati Uniti, che potrebbe avere conseguenze negative per la Turchia, ne avrà di peggiori per l’Arabia Saudita. Joe Biden e il suo segretario di Stato Antony Blinken hanno già fatto sapere da un lato di voler tornare al tavolo negoziale con l’Iran, capofila dell’asse sciita rivale di Riad, per la questione nucleare. Dall’altro hanno dichiarato l’intenzione di togliere il supporto americano alle operazioni di Saud e alleati in Yemen. Addirittura la vendita di armi a Riad e agli Emirati Arabi Uniti potrebbe, forse, essere rivista in senso restrittivo. Rispetto all’era Trump i Saud rischiano insomma di trovarsi più isolati, meno supportati e con il proprio nemico storico, Teheran, che torna a proiettare una maggiore influenza sulla regione. E all’evoluzione geopolitica dello scacchiere si affianca la crisi economica.
Stati che per decenni hanno gestito il consenso interno grazie a un welfare state molto generoso, finanziato dai proventi della vendita del petrolio, faticano oggi a preservare i propri livelli di spesa, con il crollo dei prezzi al barile che sembra oramai una dinamica irreversibile nel lungo periodo. L’avventurismo militare saudita, e ancor più quello emiratino, si rivelano oggi imprese troppo costose per essere mantenute.
In Sudan, ad esempio, portare al potere i militari sarebbe probabilmente oggi meno costoso di quanto non lo sia stato fare un’operazione analoga in Egitto con al Sisi nel 2013. Ma non ci sono le risorse per farlo. La guerra in Yemen, la guerra in Siria, la guerra in Libia, la proiezione di influenza saudita in Egitto, in Libano, nel Corno d’Africa, la “collana di perle” (basi militari emiratine dislocate lungo le coste arabe e africane): ora più che mai c’è la sensazione che la proiezione militare dell’asse sunnita dell’ultimo decennio sia stata fatta a debito e che ora il conto da pagare sia troppo salato. Le spese vanno ridotte, le imprese troppo costose terminate, i sogni di potenza quantomeno ridimensionati. In questo contesto la chiusura del fronte interno alla galassia sunnita, con la fine dell’embargo al Qatar, è una mossa quasi inevitabile, resa peraltro meno indigesta dalla minor pericolosità della Fratellanza Musulmana (e della Turchia) di cui si è detto. Le monarchie del Golfo si sentono infatti minacciate, e forse oggi più che mai, ma la loro preoccupazione nasce più dallo sfaldamento della struttura economica che le ha sorrette per decenni che non dal timore di una singola organizzazione islamista o persino del rivale iraniano.
Il Qatar, con una popolazione più piccola (meno di 3 milioni di abitanti, contro i quasi 10 milioni degli Emirati e gli oltre 30 milioni dell’Arabia Saudita) e con una disponibilità di risorse energetiche enorme (tra cui molto gas, meno in crisi al momento rispetto al petrolio) può sostenere con maggiore generosità i propri cittadini di quanto non possano fare, soprattutto nel prossimo futuro, le altre monarchie del Golfo. I Saud, e non solo, hanno quindi tutto l’interesse a evitare competizioni sul welfare e a ritrovare la via della cooperazione con Doha, per potersi muovere in modo coordinato nell’affrontare una sfida – quella della sopravvivenza alla fine dell’era del petrolio, che inizia a delinearsi all’orizzonte – che riguarda tutto il Golfo.
In questa cornice si può interpretare anche il ruolo di mediazione svolto dal Kuwait che, insieme agli Stati Uniti di Trump (che hanno progressivamente ammorbidito la propria posizione nei confronti del Qatar, complice anche il desiderio di allontanare la possibile influenza dell’Iran da Doha), hanno lavorato per la fine dell’embargo. Di fronte all’arrivo di un terremoto economico, le cui onde squasseranno la sovrastruttura politica e militare, agli Stati che hanno un destino comune conviene ritrovare il massimo grado di compattezza possibile. Il tempo per gli azzardi e le divisioni sembra infatti ormai scaduto.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
La fine dell’embargo al Qatar siglata a gennaio è una vittoria ma, allo stesso tempo, un segno della debolezza del fronte sunnita che non può più permettersi divisioni e azzardi regionali
L’accordo per la fine dell’embargo al Qatar siglato a inizio gennaio 2021 tra Doha e le altre monarchie del Golfo – che, guidate dall’Arabia Saudita, lo avevano imposto a giugno 2017 – rappresenta una vittoria per Doha ma, se inquadrato nel contesto più ampio dello scacchiere regionale, si può dire sia più figlio delle debolezze di tutti gli attori del frantumato fronte sunnita che non della forza di qualcuno di loro.
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