Brexit: accordi e disaccordi del Governo di Sua Maestà. Dopo l’uscita dall'Ue, Londra cerca di siglare nuovi accordi commerciali con i vecchi partner extra-europei
Brexit: accordi e disaccordi del Governo di Sua Maestà. Dopo l’uscita dall’Ue, Londra cerca di siglare nuovi accordi commerciali con i vecchi partner extra-europei
Il Regno Unito post Brexit è un cantiere in divenire, che necessita di tempo per essere completato e, soprattutto, rischia di trovarsi esposto alle acque agitate del commercio internazionale. Il Governo conservatore di Boris Johnson è fiducioso che numerosi accordi bilaterali al tavolo delle trattative possano essere conclusi entro il 2020, con alcuni dei papabili partner che si trovano geograficamente lontani da Londra. Intanto che le trattative sul divorzio da Bruxelles giungano a una conclusione — per nulla scontata—, sembra solido il dialogo con Australia, Nuova Zelanda e Giappone.
Uk-Usa: un rapporto difficile
Ma non solo: il Regno Unito è fortemente interessato al Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), di cui Canberra, Wellington e Tokyo fanno già parte. Tuttavia, la strada verso la definizione dei nuovi patti commerciali è lunga e in salita, compresa quella con gli Stati Uniti.
Washington rappresenta da sempre la spalla per eccellenza di Londra, ma l’amministrazione guidata da Donald Trump non è stata del tutto lineare con l’alleato britannico. Tanto che i toni entusiastici di Johnson verso una sottoscrizione dell’accordo, prima immaginata per luglio e poi per la fine dell’anno, sono pian piano calati a mere dichiarazioni di facciata. Mike Pompeo, Segretario di Stato, nel corso dell’ultima visita in Uk ha ribadito la sua volontà di “arrivare a una chiusura dell’accordo nel più breve tempo possibile”.
Ma la realtà dei fatti è ben diversa, anzitutto per un problema procedurale. La Gran Bretagna non ha più sottoscritto accordi commerciali diretti con gli Stati Uniti da quando ha partecipato al processo d’integrazione europea, con l’Ue direttamente responsabile dell’andamento delle negoziazioni. In secondo luogo, i temi di maggiore discussione sono estremamente sensibili per l’opinione pubblica britannica, come l’ambito sanitario e quello dei prodotti alimentari Usa nel mercato di Sua Maestà. Apparentemente, l’Nhs — National Health Service — e i suoi servizi non dovrebbero rientrare nel tradedeal.
Il sistema nazionale sanitario
D’altro canto, finché la trattativa non sarà scritta nero su bianco non si potrà dar per certo che il Sistema sanitario nazionale verrà escluso dall’accordo. Parte dell’opinione pubblica teme che l’accesso di aziende farmaceutiche e assicurative statunitensi porterà ad un rialzo dei costi per medicinali, apparecchiature sanitarie e prestazioni mediche. I sospetti poggiano sulla contraddizione di alcune affermazioni pubbliche del Presidente Trump: a giugno 2019, nell’incontro con l’ex Prima Ministra Theresa May, a una specifica domanda di un giornalista ha risposto che nell’elaborazione di un accordo commerciale “tutto può essere messo al tavolo delle trattative”, per poi negare categoricamente a dicembre dello stesso anno nel corso delle celebrazioni per il 70° anniversario della Nato. “Non so nemmeno da dove sia partito questo pettegolezzo”, ha puntualizzato l’inquilino della Casa Bianca. Downing Street continua a sottolineare che l’Nhs non è in discussione, ma la special relationship non sembra brillare, tanto che — secondo alcune indiscrezioni sulle previsioni realizzate dal Governo di Londra — il vantaggio della Gran Bretagna nel lungo periodo in caso di accordo con gli States si fermerebbe allo 0.2% dell’intero output economico.
Un trade deal con l’Ue
Pare ancor più complicato un tradedeal con l’Unione europea: poco prima dell’avvio della Presidenza tedesca del Consiglio dell’Ue è trapelato un documento del Governo di Berlino che mette in guardia gli Stati membri su un possibile autunno caldo, che vedrebbe la Gran Bretagna strenuamente determinata al raggiungimento di un accordo. La Cancelliera Angela Merkel “chiede che ci sia unità tra i 27”, si legge nel leak, perché una divisione tra partner potrebbe avvantaggiare il Regno Unito su alcuni temi salienti. La Cancelliera è ora forte del raggiunto accordo tra gli esecutivi nazionali su bilancio dell’Ue e Recovery Plan: i buoni auspici affinché le capitali europee possano continuare sulla buona strada anche rispetto al prossimo rapporto con Londra non mancano. Ancor di più, come spiegato da Michel Barnier, Capo negoziatore dell’Ue, viste le richieste di Boris Johnson.
Il Primo Ministro ha steso 3 linee di demarcazione a suo dire invalicabili: nella nuova relazione, la Corte di Giustizia europea non dovrà avere nessun ruolo in Gran Bretagna; il Paese avrà il pieno diritto di determinare le proprie leggi, senza vincoli; l’accordo sull’industria ittica deve poter dimostrare che la Brexit ha realmente fatto la differenza. “Qualunque trattato internazionale implica dei vincoli per entrambe le parti”, ha risposto Barnier, che all’indomani del round 6 delle negoziazioni ha delineato lo stato dell’arte: non si annotano progressi sui temi delle garanzie di giusta e libera competizione (standard e aiuti di Stato) e non è stato mosso alcun passo in avanti in ambito pesca (che, secondo la Commissione europea, richiede “una soluzione bilanciata, sostenibile e che possa durare nel lungo periodo”). Finché i due punti salienti non verranno concertati, nessun deal sarà possibile: “Un accordo meno ambizioso su beni e servizi non porterà l’Unione europea ad abbandonare le sue richieste per un mercato solido”, ha avvertito il Capo negoziatore dell’Ue. Non solo: Barnier ritiene “inaccettabile che le imbarcazioni europee dedite alla pesca siano del tutto bandite dalle acque territoriali britanniche”. Così, per la Gran Bretagna sembra segnato un futuro prossimo di relazioni economiche extra-continentali.
L’accordo con il Giappone
Tra gli accordi in dirittura d’arrivo, quello col Giappone: l’annuncio potrebbe giungere entro la fine dell’estate. Con Tokyo, una sottoscrizione lampo che trova ostacoli sulle regole d’origine (Londra spinge affinché i prodotti esportati siano considerati Made in Uk anche se la componentistica è europea) e su problematiche di carattere normativo. Hiroshi Matsuura, Capo negoziatore del Giappone, ha affermato che solo la stretta tempistica per giungere all’accordo può limitare le ambizioni dei due Paesi. Molto positivo l’approccio britannico: secondo il Governo, nel lungo periodo il Free Trade Agreement con il Giappone potrebbe aumentare gli scambi tra i due Paesi di 15.2 miliardi di sterline, permettendo una crescita della paga dei lavoratori britannici di 800 milioni di sterline.
I negoziati con Nuova Zelanda e Australia
Un altro passo verso la sottoscrizione dell’accordo è stato compiuto con la Nuova Zelanda: il primo round negoziale ha dato i suoi frutti, col prossimo atteso per il mese di ottobre. L’altra grande nazione dell’Oceania, l’Australia, segue un percorso negoziale simile a quello di Wellington: dopo il primo round, tenuto tra giugno e luglio, si terrà il secondo nel mese di settembre. Viste le pressioni sul Governo Johnson, appare scontata la firma degli accordi di libero scambio entro la fine dell’anno. Ma è il CPTPP che potrebbe aprire a Londra importanti spazi commerciali: la partnership trans-pacifica riunisce anche Canada, Messico, Singapore e Vietnam che, insieme ai Paesi in attesa di ratifica parlamentare — Brunei, Cile, Malaysia e Perù — rappresentano il 13% del Pil mondiale. Tuttavia, prima di un approdo britannico all’accordo, la Commissione esaminatrice ha chiesto che il Governo di Sua Maestà svolga trattative bilaterali con ciascun Paese membro.
Per colmare la perdita degli ex alleati europei, il Regno Unito si è dovuto reinventare, rincorrendo spazi commerciali lontani che non possono realmente essere quantificati finché i mercati non verranno testati alla prova dei fatti. A quasi cento anni dalla fondazione del Commonwealth, Londra si ritrova in una posizione non certamente da protagonista, bensì da potenza dall’incommensurabile valore storico, oggi alla ricerca di una nuova e incerta via.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Il Regno Unito post Brexit è un cantiere in divenire, che necessita di tempo per essere completato e, soprattutto, rischia di trovarsi esposto alle acque agitate del commercio internazionale. Il Governo conservatore di Boris Johnson è fiducioso che numerosi accordi bilaterali al tavolo delle trattative possano essere conclusi entro il 2020, con alcuni dei papabili partner che si trovano geograficamente lontani da Londra. Intanto che le trattative sul divorzio da Bruxelles giungano a una conclusione — per nulla scontata—, sembra solido il dialogo con Australia, Nuova Zelanda e Giappone.
Uk-Usa: un rapporto difficile
Ma non solo: il Regno Unito è fortemente interessato al Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), di cui Canberra, Wellington e Tokyo fanno già parte. Tuttavia, la strada verso la definizione dei nuovi patti commerciali è lunga e in salita, compresa quella con gli Stati Uniti.
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