L’instabilità irlandese, la crisi degli approvvigionamenti, la contesa con la Francia per i diritti di pesca e la tragedia dei migranti nella Manica. Johnson e il Regno Unito pensavano a una exit diversa…
La vigilia di Natale del 2020 le estenuanti trattative tra i negoziatori europei e britannici sfociarono in un compromesso che già allora sembrava imperfetto ma che andava siglato per evitare un caotico 1° gennaio. L’annuncio del premier Boris Johnson era stato euforico: “Il più grande accordo mai fatto”, “difenderemo i posti di lavoro”, “riprenderemo il nostro destino nelle mani”. Dichiarazioni retoriche utilizzate per esaltare il progetto Brexit voluto fortemente dallo stesso Johnson. A distanza di circa un anno da quel 24 dicembre, il quadro che emerge, però, è ben diverso.
Le tensioni in Irlanda del Nord
A partire dal problema, inasprito nel corso dell’ultimo anno, delle tensioni in Irlanda del Nord. La regione, a causa della Brexit, ha compiuto pericolosi passi indietro nel processo di pacificazione iniziato con gli Accordi del Venerdì Santo del 1998. La comunità unionista-protestante è sul piede di guerra, si sente abbandonata da Londra dopo l’imposizione de facto di un confine nel mar d’Irlanda. Per difendere il mercato unico, le merci che viaggiano tra il resto del Regno Unito e l’Irlanda del Nord infatti sono, o meglio dovrebbero essere, controllate nei rispettivi porti di approdo, secondo quanto concordato nell’accordo. Una misura che avvicina quindi Belfast a Dublino e che ha fatto montare la rabbia dei lealisti. Le verifiche britanniche, però, sono state interrotte anche a causa delle minacce dei paramilitari agli operatori portuali.
Nel 2021 si è verificato “un preoccupante ritorno dei disordini in strada” secondo il rapporto annuale dell’IRC (Independent Reporting Commission), una commissione creata per monitorare le attività paramilitari in Irlanda del Nord. Le proteste lealiste hanno puntato all’attivazione dell’articolo 16 del protocollo nordirlandese, che consente il recesso unilaterale dall’accordo reo di istituire il confine marittimo. Le marce pacifiche si sono alternate a episodi di violenza che hanno riportato l’Ulster con la mente indietro a più di 20 anni fa. Come ad aprile, quando a Belfast e in altre cittadine, centinaia di giovani si sono scontrati con la polizia. Decine di feriti tra gli agenti e altrettanti ragazzi arrestati, spesso poco più che bambini.
È ancora diffuso il fenomeno del “recreational rioting”, ovvero piccoli disordini − lanci di sassi, piccoli incendi, nei casi peggiori uso di bottiglie molotov − creati dai giovani per divertimento e per emulare i genitori o i nonni coinvolti nei Troubles. Nuove leve mandate avanti dai più anziani della comunità per creare instabilità, consapevoli del rischio minimo che corrono i ragazzi a livello legale. La mano dei gruppi paramilitari nella regione si è vista poi in alcuni dirottamenti di bus dati alle fiamme. Inoltre, a metà dicembre, a Newtownards, sono comparse delle inquietanti scritte sui muri, emblematiche del clima in cui vive l’Irlanda del Nord: “Gli avvertimenti non sono bastati, serve una guerra”. La firma è del Protestant Action Force, un movimento creato dalle sigle paramilitari lealiste.
Tutte azioni compiute con l’obiettivo di alzare il livello di tensione, accompagnando le negoziazioni tra Londra e Bruxelles proseguite anche nel 2021 per trovare una soluzione definitiva alle controversie commerciali. Gli unionisti stanno alzando la voce anche perché sanno che il futuro che li attende potrebbe essere molto duro. A livello politico il Dup (Democratic Unionist Party), principale partito della comunità, è attraversato da una crisi profonda, con cambi di leadership ravvicinati e con lo scivolamento nei sondaggi dietro allo Sinn Fein, il Partito nazionalista. Ma non sono solo le rilevazioni politiche a preoccupare gli unionisti. Il prossimo anno verranno resi noti i risultati del censimento condotto nel Regno Unito che potrebbero, con ogni probabilità, confermare il sorpasso demografico della popolazione nazionalista-cattolica nei confronti di quella lealista-protestante. Un dato che avvicinerebbe il momento di un referendum sull’unità dell’isola irlandese, dall’esito quanto mai incerto. Un’eventualità che, insieme all’indipendenza della Scozia, rappresenta uno dei peggiori scenari per il 10 di Downing Street.
I diritti di pesca
Ma, come detto, l’instabilità nordirlandese è solo la prima delle conseguenze post-Brexit. Una delle principali questioni, emerse già durante le trattative dell’anno scorso, è quella sui diritti di pesca contesi tra Regno Unito e Francia. L’accusa di Parigi a Londra è di aver concesso troppe poche licenze alle imbarcazioni francesi per poter pescare nelle acque britanniche, dove da anni i pescherecci europei si rifornivano in virtù delle regole europee. Le trattative sono continuate a oltranza, condite anche da episodi di aperta provocazione nel Canale della Manica. Come al largo dell’isola di Jersey, vicina alle coste francesi ma di dominio britannico, dove scioperi di pescherecci e invii di navi militari hanno rischiato di scatenare incidenti. Su questo dossier il governo britannico sa di avere il coltello dalla parte del manico, essendo il titolare effettivo dei diritti sui pescherecci. Entrambi gli attori sono consapevoli di come sia un problema relativamente piccolo per portata economica, ma con risvolti simbolici più ampi, tanto che oggi tra i due Paesi i rapporti sono molto tesi.
Quella delle licenze di pesca si interseca con due vicende che hanno incrinato le relazioni tra Londra e Parigi negli ultimi mesi: il patto di difesa Aukus tra Regno Unito, Australia e Stati Uniti, ma in particolare la crisi dei migranti nello stretto della Manica. Migliaia di profughi hanno attraversato la Manica per raggiungere le coste inglesi, e in alcuni casi si sono verificati anche naufragi che hanno causato morti. Si parla di 26mila persone sbarcate solo nel 2021, un numero che ha fatto scattare il campanello d’allarme al governo Johnson, che ha protestato con il presidente Emmanuel Macron per gli scarsi controlli delle partenze, addossandosi a vicenda le responsabilità.
Crisi degli approvigionamenti e pandemia
Londra, tra l’altro, ha vissuto mesi complicati per la scarsità di scorte e la carenza di lavoratori, che dopo l’estate del 2021 hanno rischiato di bloccare il Paese. L’approvvigionamento di beni è stato reso complicato in particolare dalla mancanza di autotrasportatori. Una dinamica dovuta in parte alla pandemia, visto che lo stesso problema è stato riscontrato anche dai Paesi comunitari, ma in parte causata dall’uscita dall’Ue e dalle regole più stringenti per entrare da immigrato nel Regno Unito. Tutto ciò si è trasformato in scaffali vuoti nei supermercati, nelle file chilometriche o nelle risse davanti ai distributori di benzina. Una crisi che ha costretto il Governo di Johnson a far uso di mezzi e uomini militari per supportare la catena logistica del Paese.
E proprio lo stesso Johnson sta vivendo un periodo politico molto complicato. La scommessa Brexit, su cui si è speso in prima persona, fatica a compiersi, nonostante non si siano verificati gli scenari drammatici che in certi casi venivano paventati. A distanza di due anni dalla sua schiacciante elezione nel 2019, la sua leadership nel Partito conservatore è messa a dura prova. La gestione della pandemia è stata altalenante con diversi malumori scoppiati anche dentro la maggioranza e lo scandalo delle feste tenute dal suo gabinetto durante il lockdown ha fatto scalpore. In aggiunta è arrivata anche la sonora sconfitta dei Tories del 17 dicembre nelle elezioni suppletive del seggio di North Shropshire, roccaforte conservatrice passata ai liberal-democratici. Tutti episodi che hanno minato il ruolo e la figura di BoJo. Dietro di lui scalpitano due giovani rappresentanti del partito che reclamano spazio: il Cancelliere Rishi Sunak e Liz Truss, nuova Foreign Secretary.
Il futuro di Boris Johnson è quanto mai incerto, così come il ruolo del Regno Unito post-Brexit, che doveva rilanciarsi come attore protagonista nel mondo con la Global Britain. L’unica certezza, oggi, è che il primo anno ufficiale di uscita dall’Unione europea, con la congiuntura imprevedibile del virus, ha dimostrato tutta la fragilità interna di Londra.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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L’instabilità irlandese, la crisi degli approvvigionamenti, la contesa con la Francia per i diritti di pesca e la tragedia dei migranti nella Manica. Johnson e il Regno Unito pensavano a una exit diversa…