Tante e diverse sono state le proteste dei manifestanti in piazza contro i propri Governi: tutti delusi per le mancate promesse di un futuro migliore
Il 2019 è stato l’anno delle proteste di massa, che ha visto i manifestanti di varie parti del mondo unirsi virtualmente nel chiedere maggiore dignità sociale e contrastare le politiche economiche dei Governi in carica. Il fil rouge che lega i Paesi del Centro e Sud America a quelli del Vicino, Medio ed Estremo Oriente varia dai bisogni di maggiore rappresentatività a quelli legati alle ineguaglianze, con le componenti prettamente politiche che accompagnano le manifestazioni in ogni singola realtà.
La crisi in atto ad Haiti è stata per lo più dimenticata o marginalizzata dalla stampa internazionale, nonostante il 2019 sia stato un anno di forti tensioni nella repubblica caraibica. Nel 2020 ricorre il decennale dell’apocalittico terremoto che ha devastato principalmente la parte ovest dell’isola di Hispaniola, che ospita a est anche la Repubblica Dominicana. Nel 2010, secondo le stime prodotte dalle Nazioni Unite e da USGS, un’agenzia scientifica degli Stati Uniti, il terremoto causò tra le 220mila e le 300mila vittime: numeri esorbitanti, soprattutto se accostati alla fragile economia haitiana. Ad aggravare la situazione, si è aggiunto nel 2016 il passaggio dell’uragano Matthew, portando danni e perdite economiche pari al 32% del Pil del 2015; secondo i dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale, nel 2019 l’inflazione ha toccato il 17,5%.
Le condizioni estremamente critiche nelle quali riversa la popolazione sono state ulteriormente appesantite dal fardello della corruzione, che vede protagonista il Presidente Jovenel Moïse. A fasi alterne, nell’arco del 2019, i manifestanti sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del leader politico che, secondo un report elaborato dalla Corte dei Conti, avrebbe intascato fondi pubblici destinati a circa 400 programmi sociali per la ricostruzione di infrastrutture dedicate alla viabilità e gli edifici ospedalieri. Tutto ruota attorno al progetto Petrocaribe, alleanza delle Nazioni caraibiche che ha visto il Venezuela dell’allora presidente Hugo Chávez fornire petrolioa bassi tassi d’interesse, con restituzione del pagamento fino a 25 anni. Nel caso di Haiti, la possibilità di pagare il combustibile a prezzi contenuti avrebbe permesso un risparmio decisivo per gli investimenti nei programmi sociali. I documenti accusano il Presidente di appropriazione indebita per uno dei progetti sul rifacimento stradale avviato prima che lui entrasse in carica. A Moïse non è bastato dichiarare pubblicamente la sua innocenza ed estraneità ai fatti per fermare la protesta degli haitiani, che già nel 2018 manifestarono il loro dissenso a causa della scelta del Governo di eliminare i sussidi per la benzina. La decisione venne presa su suggerimento dell’Fmi, che opera nel Paese per via dell’alto indebitamento della repubblica caraibica. La misura venne poi cancellata, ma contrasta con la vicenda Petrocaribe, che avrebbe permesso, al contrario, di avere prezzi calmierati per il combustibile.
Così come ad Haiti nel 2018, le forti proteste avvenute nel mese di ottobre 2019 in Ecuador sono state generate dalla scelta, spinta dal Fmi, di eliminare i sussidi all’acquisto di carburante. Il decreto 883 aveva la finalità di recuperare liquidità per la restituzione del prestito chiesto da Quito all’organizzazione con sede a Washington, cancellando la normativa introdotta negli anni ’70 che pesa sulle casse dello Stato per 1,3 miliardi di dollari annui. C’è voluta la mediazione dello Stato del Vaticano e delle Nazioni Unite per giungere a un accordo tra le parti che, alla fine, ha portato all’abrogazione del decreto: una sconfitta per il Presidente Lenin Moreno, che nelle settimane degli scontri tra polizia e manifestanti fu costretto allo spostamento della sede governativa dalla capitale alla città di Guayaquil.
Con gli ecuadoriani in piazza, anche il popolo del Cile si rivoltava negli stessi giorni contro la classe dirigente del Paese. In questo caso, la risposta del Governo è stata particolarmente severa, con il Presidente Sebastián Piñera che, spalleggiato dalle Forze Armate, ha proclamato un coprifuoco durato settimane. Le manifestazioni sono state avviate dagli studenti universitari, che lamentavano l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana. Nel giro di pochi giorni, le fasce deboli della popolazione e la classe media sono state coinvolte in quella che è divenuta una mobilitazione di massa in tutto il Paese. La miccia accesa dagli studenti ha coinvolto varie categorie sociali, che hanno dovuto fare i conti con la repressione della polizia. L’ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha pubblicato un report che getta un’ombra sul sistema di gestione della sicurezza nel Paese. Tra il 18 novembre e il 6 dicembre, più di 28 mila persone sono state incarcerate, molte delle quali arbitrariamente; il 10 dicembre, quasi 5000 persone sono rimaste ferite nel corso delle manifestazioni, compresi 2800 membri delle forze dell’ordine; almeno 350 persone hanno subito danni agli occhi o al volto, che secondo l’Onu corrisponde a un “uso improprio e indiscriminato di armi non letali, che va contro i principi internazionali della minimizzazione dei rischi di ferimento”. Ma il dato più significativo è quello legato ai 113 casi documentati di torture e maltrattamenti riservati ai manifestanti da parte della polizia e dell’esercito; tra questi, 24 episodi di violenza sessuale su donne, uomini e adolescenti.
In Venezuela, l’anno passato è stato quello in cui Juan Guaidó è venuto alla ribalta della scena politica, dividendo la comunità internazionale tra chi l’ha riconosciuto come Presidente ad interim del Paese e chi, invece, ha continuato ad appoggiare il Governo di Nicolás Maduro. La reazione della piazza è stata ambivalente, con manifestazioni pro-governative e altre che hanno visto i cittadini contrapposti alle forze armate, fedeli a Maduro tanto da aver decretato il fallimento di un tentato golpe del leader dell’opposizione.
Il quadro politico venezuelano è strettamente connesso con quello della Bolivia, dove Evo Morales ha rassegnato le dimissioni nel mese di novembre dopo settimane di forti proteste e manifestazioni, fomentate dal sospetto che le elezioni di ottobre fossero truccate. Maduro ha espresso la sua solidarietà all’ex sindacalista, ma è crisi ideologica per la sinistra sudamericana. In seguito agli scontri avvenuti in tutto il Paese e alle pressioni dell’Organizzazione degli Stati Americani, Morales ha lasciato l’incarico e si è rifugiato in esilio prima in Messico, poi in Argentina. Dopo il suo addio, la Senatrice Jeanine Áñez si è autoproclamata Presidente; successivamente, una nuova ondata di proteste — stavolta, in difesa di Morales — si è verificata soprattutto nei luoghi della coltivazione della coca. Infatti, l’ex Presidente è stato per decenni prima dirigente e poi leader del sindacato dei cocaleros, che ancora oggi ripongono in lui fiducia, nonostante l’esilio.
Dal Libano ad Hong Kong, passando per India, Iraq e Iran, nel 2019 i moti di protesta hanno travolto anche il continente asiatico con sfaccettature non dissimili da quelle viste in Sudamerica. I media hanno focalizzato la loro attenzione sull’ex colonia britannica, dove i manifestanti hanno ottenuto il ritiro della contestata legge sull’estradizione in Cina, promossa dal Capo Esecutivo Carrie Lam. Espressione del Governo di Pechino, Lam ha dovuto cedere alle pressioni della piazza, che non ha mai dato tregua alla Chief Executive. Ma dietro le proteste per la norma, si cela un diffuso malcontento causato dal parziale rispetto cinese degli accordi con la Gran Bretagna del 1984, che prevedevano la formula “un Paese, due sistemi” fino al 2047, anno della fine dello status di Regione Amministrativa Speciale.
Di carattere etnico-religioso il caos avvenuto in Kashmir, unica regione dell’India a maggioranza musulmana. Il Governo nazionalista di Narendra Modi ha cancellato lo status speciale che contraddistingueva Kashmir e Jammu, scatenando l’ira degli abitanti, ai quali è stato imposto per settimane il coprifuoco e l’impossibilità di accesso a internet.
Iran, Iraq e Libano vivono un contesto geopolitico comune, segnato dall’influenza di Teheran che, in parallelo, deve fare i conti con le problematiche interne. La potenza iraniana gioca un ruolo di riferimento nell’area vicino-mediorientale, ma le sanzioni imposte dagli Stati Uniti in seguito all’abbandono di Trump dell’accordo sul nucleare, il JCPoA, ha causato un crollo vertiginoso dell’economia, arrivata ai minimi termini. Le contromisure adottate dalla Repubblica Islamica, come nel caso di Haiti ed Ecuador, hanno colpito il prezzo del carburante, aumentato del 50% e razionato nella quantità acquistabile mensilmente. Secondo Amnesty International, nel corso delle proteste popolari avvenute tra il 15 e il 18 novembre sono morte 304 persone, con le forze dell’ordine colpevoli d’aver usato metodi brutali per arginare le folle scese in piazza in numerose città del Paese.
Il clima è poi precipitato all’indomani dell’assassinio, per mano statunitense, del Generale delle Guardie della Rivoluzione Qasem Soleimani: il popolo iraniano si è riunito attorno alle istituzioni del Paese, per scontrarsi nuovamente con il Governo in seguito all’ammissione dell’abbattimento del volo di linea della compagnia Ukraine International Airlines, dove persero la vita 176 passeggeri. L’aereo è stato accidentalmente colpito da un missile dell’esercito della Repubblica Islamica in occasione dell’attacco, in risposta alla morte di Soleimani, alle basi Usa nel confinante Iraq, Paese al centro degli interessi sia iraniani che statunitensi. Nel corso del 2019 e nelle prime settimane del 2020 gli iracheni hanno protestato contro l’esecutivo del Primo Ministro Adil Abd al-Mahdi, che guida un Governo incapace di affrontare le riforme necessarie per lo sviluppo economico. L’esercito ha represso con violenza i manifestanti, che lamentano non solo le gravi condizioni sociali ma anche l’eccessiva influenza esterna degli Stati Uniti e dell’Iran. Il Consolato iraniano della città santa di Kerbala è stato attaccato a più riprese, così come l’Ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad, specie in seguito alla morte di Soleimani. L’Iraq ospita un contingente militare di Washington che si attesta attorno ai 5000 soldati: recentemente, il Parlamento ha votato una discussa risoluzione che chiede agli Stati Uniti di abbandonare il Paese. La presenza militare statunitense è sempre più percepita come ostile, così come quella politica dell’Iran che, nonostante la maggioranza della popolazione irachena sia sciita, vede scalfita la propria autorità.
Il ruolo iraniano è fortemente percepito anche in Libano, dove il partito sciita Hezbollah partecipa attivamente alla formazione dei Governi in carica, compreso quello di Hassan Diab, formato a gennaio 2020. Le proteste popolari hanno segnato tutto il 2019 e sono proseguite nel nuovo anno. Il Libano vive una grave crisi economica, con il debito pubblico che ha toccato gli 86,2 miliardi di dollari e una crescita allo 0,2%. Agli albori delle proteste, la proposta — poi ritirata — avanzata dall’ex Primo Ministro Saad Hariri di tassare Whatsapp. L’ultimo esecutivo, che ha avuto il via libera in 90 giorni rispetto alle trattative durate 9 mesi per il precedente, ha preso il timone del Paese dopo le dimissioni di Hariri causate proprio dalle forti e continue proteste avvenute in tutta la nazione. Diab ha espresso vicinanza ai manifestanti che, nonostante le parole del Primo Ministro, hanno cercato di impedire il passaggio della legge di bilancio. La norma ha perso alcuni dei contenuti promessi, ritenuti essenziali dai cittadini: su tutti, una tassazione una tantum di 400 milioni di dollari sul sistema bancario, accusato di aver bloccato l’accesso ai risparmi dei correntisti e i trasferimenti di denaro verso l’estero.
È facile predire che la rabbia popolare sarà il refrain delle cronache anche nel 2020: l’insoddisfazione per le condizioni di vita e i bisogni dei cittadini soffocati in più contesti saranno temi protagonisti, alimentati dalle scelte delle classi dirigenti al potere, spesso incapaci di governare la complessità di un mondo sempre più globalizzato, anche nelle proteste.
Il 2019 è stato l’anno delle proteste di massa, che ha visto i manifestanti di varie parti del mondo unirsi virtualmente nel chiedere maggiore dignità sociale e contrastare le politiche economiche dei Governi in carica. Il fil rouge che lega i Paesi del Centro e Sud America a quelli del Vicino, Medio ed Estremo Oriente varia dai bisogni di maggiore rappresentatività a quelli legati alle ineguaglianze, con le componenti prettamente politiche che accompagnano le manifestazioni in ogni singola realtà.
La crisi in atto ad Haiti è stata per lo più dimenticata o marginalizzata dalla stampa internazionale, nonostante il 2019 sia stato un anno di forti tensioni nella repubblica caraibica. Nel 2020 ricorre il decennale dell’apocalittico terremoto che ha devastato principalmente la parte ovest dell’isola di Hispaniola, che ospita a est anche la Repubblica Dominicana. Nel 2010, secondo le stime prodotte dalle Nazioni Unite e da USGS, un’agenzia scientifica degli Stati Uniti, il terremoto causò tra le 220mila e le 300mila vittime: numeri esorbitanti, soprattutto se accostati alla fragile economia haitiana. Ad aggravare la situazione, si è aggiunto nel 2016 il passaggio dell’uragano Matthew, portando danni e perdite economiche pari al 32% del Pil del 2015; secondo i dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale, nel 2019 l’inflazione ha toccato il 17,5%.
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