La Siria non è “una” come dice Assad, rieletto con il 95% dei voti
La vittoria alle elezioni è servita a Bashar al-Assad per mostrare al mondo quanto il Paese è unito e quanto le sue istituzioni funzionano bene. Ma la realtà è diversa...
La vittoria alle elezioni è servita a Bashar al-Assad per mostrare al mondo quanto il Paese è unito e quanto le sue istituzioni funzionano bene. Ma la realtà è diversa…
In Siria il Presidente Bashar al-Assad ha vinto le elezioni del 26 maggio con il 95,1% delle preferenze, ottenendo un nuovo mandato da sette anni, il quarto. È al potere dal 2000.
L’esito del voto era in realtà scontato e la (larghissima) vittoria di Assad non è mai stata in discussione. Tutto il processo elettorale può essere infatti paragonato a una grande recita, “legittimata” dalla presenza di candidati dell’opposizione del tutto irrilevanti – l’opposizione vera è all’estero, come gran parte della popolazione siriana – e organizzata dal regime per due motivi: per autocelebrarsi, innanzitutto; e poi per mostrare ai cittadini e al resto del mondo che la Siria è tornata alla normalità dopo dieci anni di guerra e che le sue istituzioni “funzionano” regolarmente.
La situazione in Siria a dieci anni dall’inizio della guerra
La realtà delle cose è però molto diversa. Dal marzo del 2011 – la data a cui si fa risalire lo scoppio del conflitto, iniziato in realtà con delle proteste pacifiche contro il Governo autoritario di Assad – ad oggi si contano circa 228mila civili uccisi e 149mila prigionieri politici. Undici milioni di persone, ovvero quasi la metà della popolazione, sono fuggite dal Paese. L’80-90% degli abitanti vive in condizioni di povertà, l’economia è al collasso e la valuta pure: solo quest’anno ha perso il 40% del suo valore, e servono quattromila lire siriane per comprare un dollaro sul mercato nero.
La pandemia di coronavirus ha solamente peggiorato un quadro già disastroso. Eppure, stando ai risultati, negli ultimi sette anni Assad avrebbe rafforzato il suo consenso popolare: alle elezioni presidenziali del 2014 vinse con il 92 per cento dei voti; a quelle di mercoledì con il 95,1.
Un Paese diviso
Assad ha sfruttato le elezioni anche per diffondere l’immagine di un Paese unito. Mercoledì si è recato a votare a Duma (o Douma), un fatto molto rilevante da un punto di vista simbolico: la città, che rientra nel governatorato della capitale Damasco, è abitata prevalentemente da musulmani sunniti – Assad appartiene alla minoranza sciita alawita – ed è stata una delle roccaforti dei ribelli che si opponevano al suo Governo. Duma è nota soprattutto per l’attacco chimico dell’aprile 2018, che causò la morte di circa cinquanta civili e che è stato ricondotto al regime.
La città è stata nel frattempo riconquistata dalle forze di Assad, che l’ha potuta esibire come prova del fatto “che il popolo siriano è uno”. “La Siria non è quella che stavano cercando di vendere”, ha detto, “una città contro l’altra e una setta contro l’altra o una guerra civile”.
Anche in questo caso, la realtà è molto diversa da come la racconta Assad. È vero che il regime oggi controlla una parte rilevante del territorio siriano, circa il 60-70%: nel 2014, nel suo momento più basso, arrivava al 30% appena. Ma è altrettanto vero che spesso questo controllo è possibile solo grazie al supporto armato dei gruppi filo-iraniani e dei soldati russi. Se Assad è dov’è oggi, lo deve all’appoggio militare di Mosca (che ha fatto della Siria un grande campo di addestramento per il proprio esercito) e di Teheran.
Assad non ha alcuna presa su grosse fette del Paese. E infatti in alcune zone le elezioni sono state boicottate e in altre – come a Idlib, nel nord-ovest – non sono state organizzate. Il punto è che oggi la Siria non è “una”, come dice il suo Presidente, ma sono almeno quattro, come spiega l’Economist. Oltre a essere espressione di gruppi etnici diversi, queste suddivisioni hanno milizie proprie e anche una propria moneta e un proprio “protettore” straniero.
La maggior parte del territorio, compresa l’importante città di Aleppo, è controllata dal regime di Damasco (vedi sopra), dove Russia e Iran si muovono sciolti. A nord-est – area che contiene dei giacimenti petroliferi – ci sono i curdi, in passato appoggiati dagli Stati Uniti nella guerra allo Stato islamico. A nord-ovest ci sono gli arabi sunniti e soprattutto c’è la Turchia, che gestisce la zona e ne ha fatto un “cuscinetto”. L’area attorno a Idlib è dominata da gruppi jihadisti. Poi c’è lo Stato islamico, che ha un pezzetto di territorio nell’est. A sud ci sono i drusi, che in larga parte si autogestiscono.
In Siria il Presidente Bashar al-Assad ha vinto le elezioni del 26 maggio con il 95,1% delle preferenze, ottenendo un nuovo mandato da sette anni, il quarto. È al potere dal 2000.
L’esito del voto era in realtà scontato e la (larghissima) vittoria di Assad non è mai stata in discussione. Tutto il processo elettorale può essere infatti paragonato a una grande recita, “legittimata” dalla presenza di candidati dell’opposizione del tutto irrilevanti – l’opposizione vera è all’estero, come gran parte della popolazione siriana – e organizzata dal regime per due motivi: per autocelebrarsi, innanzitutto; e poi per mostrare ai cittadini e al resto del mondo che la Siria è tornata alla normalità dopo dieci anni di guerra e che le sue istituzioni “funzionano” regolarmente.
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