Ampio rimpasto di governo a Taiwan dopo le dimissioni di massa seguite alle elezioni locali dello scorso novembre. Confermati i Ministri agli Esteri e alla Difesa ma non mancano i segnali di discontinuità.“Spero di sbagliarmi ma il mio istinto mi dice che combatteremo nel 2025”. Nei giorni scorsi, ha fatto molto parlare l’ennesima previsione della data di una guerra tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese. Ovviamente su Taiwan. Il suo autore è il generale dell’aeronautica Mike Minihan, a capo del comando di mobilità aerea.
L’opinione, espressa in una nota a uso interno, è circolata sui social media generando una serie di articoli e analisi, nonché la presa di distanze ufficiale da parte del Pentagono. Il Dipartimento di Difesa ha infatti chiarito che si tratta di commenti “non rappresentativi del punto di vista” generale sulla Cina.
Negli anni e mesi scorsi, altri militari o esponenti politici statunitensi hanno fatto previsioni diverse sulla data di una possibile azione militare di Pechino sullo Stretto: 2027, 2032, persino 2024. Tutte con basi più o meno logiche. Va però ricordato innanzitutto che si tratta di opinioni. E che c’è chi, sempre dalle parti di Washington, ritiene che né un’azione militare su Taiwan e né tantomeno una guerra tra le due superpotenze sia prossima o inevitabile.
Detto questo, il 2023 taiwanese potrebbe essere persino più “interessante” del 2022. L’anno appena trascorso ha visto una parziale erosione dello status quo. Da una parte, Pechino ha criticato l’escalation diplomatica statunitense con la visita di Nancy Pelosi a Taipei, la prima di uno speaker della Camera dei Rappresentanti dal 1997. Dall’altra parte, Washington ha criticato l’escalation militare cinese con esercitazioni militari senza precedenti intorno a Taiwan e le incursioni aeree e navali ormai quotidiane oltre la cosiddetta “linea mediana”, confine non ufficiale ma ampiamente rispettato sullo Stretto sino allo scorso agosto.
Nel mezzo, a Taiwan è stata annunciata l’estensione della leva militare da 4 a 12 mesi e l’opposizione del Kuomintang (KMT, più dialogante nei confronti di Pechino) ha stravinto le elezioni locali.
L’anno appena iniziato può essere decisivo per capire i futuri equilibri sullo Stretto. A partire proprio dalla postura di Taipei, che ha una rilevanza ancora notevole nel gioco delle parti rispetto invece a quanto accade nella penisola coreana dove ormai il regime di Kim Jong-un non ritiene più Seul un interlocutore significativo, a prescindere da chi la governi. E in questo senso ci sono novità cruciali.
Proprio lunedì 30 gennaio, a Taiwan è stato annunciato un ampio rimpasto di governo, dopo le dimissioni di massa che hanno fatto seguito alle elezioni locali del 26 novembre scorso. L’ex vicepresidente Chen Chien-jen ha sostituito Su Tseng-chang nel ruolo di premier. Chen, 71 anni, è stato vicepresidente durante il primo mandato di Tsai, dal 2016 al 2020, durante il quale si è distinto per aver coordinato gli sforzi per riformare il sistema pensionistico del governo e per aver approvato una legge speciale per legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Il vice ministro degli Esteri Tsai Ming-yen è stato messo a capo dell’Ufficio di Sicurezza Nazionale (NSB). Tsai, studioso di relazioni internazionali ed ex diplomatico, è stato scelto per sostituire Chen Ming-tong, che si è dimesso dopo essere stato coinvolto in uno scandalo di plagio che ha coinvolto il suo ex studente, l’ex sindaco di Hsinchu Lin Chih-chien. Tra i ministri, fanno il loro ingresso una serie di accademici di alto profilo, ma restano al loro posto sia Joseph Wu, agli Esteri, sia Chiu Kuo-cheng, alla Difesa: segnale che la presidente Tsai Ing-wen vuole dare continuità alla sua politica intrastretto.
Eppure, all’orizzonte si stagliano elementi di discontinuità. Dallo scorso 18 gennaio, infatti, alla guida del Partito Progressista Democratico (DPP) non c’è più Tsai ma il vicepresidente William Lai. Si tratta di una figura ben più radicale di quella di Tsai. L’attuale presidente non riconosce il consenso del 1992 e il principio della unica Cina, ma non ha mai voluto l’indipendenza formale come Repubblica di Taiwan, limitandosi a difendere quella de facto come Repubblica di Cina. Lai si è invece espresso in passato a favore dell’indipendenza formale, salvo poi smussare la sua retorica una volta diventato vicepresidente per ricomporre una frattura interna che nel 2019 aveva portato il DPP sull’orlo della scissione tra l’ala più moderata guidata da Tsai e quella più radicale guidata da Lai.
Proprio quest’ultimo sarà con forte probabilità il candidato del DPP alle presidenziali del prossimo gennaio. Un nome inviso a Pechino e sul quale Washington deve ancora convincersi del tutto. Una parte degli stessi elettori taiwanesi, pur se di inclinazione pro DPP, sono scettici su quella che viene percepita come un’opzione più rischiosa di quanto non fosse stata Tsai nel 2016 e 2020.
Ma da qui alle urne di gennaio 2024 possono succedere varie cose anche sul fronte esterno. Le rispettive manovre di Washington e Pechino sembrano infatti continuare. Ad aprile potrebbe arrivare la visita di Kevin McCarthy a Taipei. Si tratterebbe del bis del viaggio di Pelosi a distanza di meno di un anno, dopo 25 anni di assenza di visite di così alto profilo. Difficile che Pechino non lo percepisca, o quantomeno non lo racconti, come un segnale preciso di incoraggiamento a quelle che definisce “forze secessioniste”.
Nonostante McCarthy, repubblicano, sia del partito opposto al presidente Joe Biden a differenza di Pelosi, la reazione di Xi Jinping non potrà probabilmente essere meno intensa di quella dello scorso agosto. Contestualmente, a marzo, durante le annuali “due sessioni” legislative, potrebbero arrivare le prime novità dal punto di vista normativo sul dossier taiwanese da parte del Partito comunista. Una revisione della legge anti secessione del 2005 o persino una nuova legge per la riunificazione sono opzioni sul tavolo.
Così come all’ideologo Wang Huning, numero 3 della gerarchia del Comitato permanente, Xi avrebbe chiesto una nuova formulazione teorica che superi il tradizionale modello “un paese, due sistemi”, reso inaccettabile dai taiwanesi dopo quanto accaduto a Hong Kong.
La volontà potrebbe essere quella di proporre un nuovo modello a un possibile e auspicato (da Pechino) governo taiwanese targato KMT, che però difficilmente potrà accettare le condizioni poste dal Partito comunista. Quelle sul 2025 sono solo opinioni, così come quelle sul 2027 o altre date, ma di certo le lancette dell’orologio sullo Stretto scorrono più rapide di un tempo.
L’opinione, espressa in una nota a uso interno, è circolata sui social media generando una serie di articoli e analisi, nonché la presa di distanze ufficiale da parte del Pentagono. Il Dipartimento di Difesa ha infatti chiarito che si tratta di commenti “non rappresentativi del punto di vista” generale sulla Cina.
Negli anni e mesi scorsi, altri militari o esponenti politici statunitensi hanno fatto previsioni diverse sulla data di una possibile azione militare di Pechino sullo Stretto: 2027, 2032, persino 2024. Tutte con basi più o meno logiche. Va però ricordato innanzitutto che si tratta di opinioni. E che c’è chi, sempre dalle parti di Washington, ritiene che né un’azione militare su Taiwan e né tantomeno una guerra tra le due superpotenze sia prossima o inevitabile.