La nuova governance europea: non più solo due gruppi a dire la loro, ma quattro. E l’Italia deve ancora individuare il suo commissario…
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
Ancora per i prossimi cinque anni l’Europa sarà guidata da quelle forze che sono a favore dell’integrazione europea e che hanno fatto fronte comune contro i sovranisti, vincendo le elezioni del 26 maggio. Ma saranno, forse, gli ultimi cinque anni di credito incondizionato che i cittadini dei 28 Stati membri (27 senza il Regno Unito) saranno disposti a concedere ai vertici delle istituzioni europee. Perché ormai la necessità di riformare le istituzioni europee, renderle capaci di dare risposte alle domande di lavoro e sicurezza nel continente ha bisogno di risposte concrete non più solo di promesse.
Del resto, l’ultimo laborioso processo per la nomina dei cinque “Top Jobs” europei ossia i Presidenti della Commissione, del Parlamento, del Consiglio Ue, della Bce e dell’Alto Rappresentate per la Politica estera e di sicurezza comune ha evidenziato tutte le difficoltà in cui si sta muovendo la nomenklatura europea. A differenza del 2014 tutto è diventato oggi più difficile con la rottura del tradizionale duopolio Ppe-socialisti. La maggioranza nell’Europarlamento vede infatti oggi alleati anche i liberali di Alde e i Verdi complicando il puzzle delle nomine nel quale sono coinvolti non più solo due gruppi ma quattro. Innanzi tutto il metodo degli “spitzenkandidaten”, ossia i candidati scelti dalle forze politiche, che nel 2014 aveva portato Jean-Claude Juncker sulla poltrona più alta della Commissione questa volta non ha funzionato come ci si aspettava. Il candidato del Ppe, Manfred Weber pur avendo raccolto il maggior numero di voti, non ha avuto infatti il sostegno di socialisti e liberali oltre a non godere affatto della simpatia del Presidente francese, Emmanuel Macron.
Il rebus delle nomine si è così trasformato per settimane in un duello a distanza tra lo stesso Macron liberale e la Cancelliera tedesca Angela Merkel fino all’ultimo sponsor ufficiale del popolare Weber. Nella notte del solstizio d’estate, tra il 20 e 21 giugno scorsi, una riunione informale nel bar dell’Hotel Amigo di Bruxelles tra Macron, Merkel, Conte e il premier lussemburghese Bettel non ha prodotto alcun risultato. Verso le quattro del mattino Bettel rompeva gli indugi: “ma il candidato ideale alla Commissione per dialogare alla pari con Trump e Xi noi lo abbiamo già, sei tu Angela”. La Cancelliera tedesca, nonostante la stanchezza dell’ora tarda, ha riso a mezza bocca tagliando corto: “parliamo di cose reali, non di fantasie”. Per tutti i giorni precedenti quel vertice e fino a quello successivo del 30 giugno il Presidente del Consiglio Ue Donald Tusk si era speso in prima persona per identificare profili di possibili candidati, creare rose di nomi, combinare maggioranze qualificate di Paesi e popolazioni, escludere minoranze di blocco. Un esercizio che vedeva cadere tutti gli “spitzenkandidaten”, non solo Weber ma anche il socialista Timmermans e la liberale danese Vestager. Tra i liberali venivano sondati anche il premier belga Michel e quello olandese Rutte ma tra i papabili il più forte rimaneva il francese Barnier, negoziatore per la Brexit, seguito dalla lituana Grybauskaite, dalla bulgara Georgieva, dal premier croato Plenkpovi e dalla stessa presidente croata Grabar-Kitarovic.
POra, una volta chiusa la partita dei presidenti della Commissione e del Parlamento si aprirà il negoziato per i posti di commissario. L’Italia è consapevole che dopo il pieno fatto negli ultimi anni con tre posizioni apicali su cinque si potrà solo accontentare di un commissario. Ma, sostengono i rappresentanti del Governo, “dovrà essere di peso”. Il Parlamento ha approvato recentemente una risoluzione in cui si chiede un portafoglio con “competenze esclusive europee”. E le competenze esclusive europee sono solo cinque: unione doganale, concorrenza, mercato interno, commercio internazionale, risorse biologiche dei mari. Ma il vero problema per l’Italia è il nome del nuovo commissario. Tutti ricordano ancora quando il Parlamento Europeo bocciò il candidato commissario Rocco Buttiglione per le sue dichiarazioni omofobe. Non è escluso che un candidato della Lega possa ricevere oggi lo stesso trattamento da una maggioranza dell’Europarlamento tutta antisovranista. Per questo non è stata ancora scartata l’ipotesi che a Bruxelles possa andare l’attuale Ministro degli Esteri, Enzo Moavero, profondo conoscitore dei meccanismi della macchina comunitaria.
Anche perché un nome non apertamente ostile alle politiche europee potrebbe favorire un trattamento “soft” nell’eventuale e ancora non del tutto scongiurata procedura di infrazione per disavanzo eccessivo a causa del debito fuori controllo. Lo stesso presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte ha dovuto ammettere che la strada per la procedura di infrazione è tutt’altro che spianata. Anzi è costellata di mille difficoltà e nessuno nella vecchia Commissione o tra gli Stati membri sembra disposto a farci concessioni di sorta. La distanza tra le posizioni di Bruxelles e di Roma resta molto ampia. Bruxelles è ferma: l’Italia ha un “buco” nei conti dello 0,4% nel 2018, già consolidato dai dati finali, e uno dello 0,5% nel 2019, che diventa 0,1% se si fa riferimento alla regola del debito, e non a quello totale. Una differenza non da poco, ma ammessa dalle regole. Il gap da colmare per non violare il Patto è quindi, sulla carta, dello 0,5% per il 2018-2019. Si tratta di oltre otto miliardi di euro. Anche volendo sanare soltanto il 2018 l’Italia dovrebbe trovare tra i sei e i sette miliardi di risparmi strutturali, escludendo dal conto i due miliardi già congelati nella manovra dopo l’accordo di dicembre con la Ue, già presi in considerazione nelle stime di Bruxelles. Inoltre, si considera come “fattore aggravante” il fatto che nel 2020, per quota 100 e reddito di cittadinanza, il deficit sfonderà il 3%, il Governo dovrebbe dare rassicurazioni sulla prossima manovra chiarendo, per di più, dove intende trovare le coperture per la flat tax. Ma queste stime, ripete all’infinito Conte, non rispondono alla realtà “Solo noi monitoriamo da vicino la situazione e conosciamo i veri flussi di cassa, non Bruxelles”. Con queste premesse sarà difficile andare lontano. E ancora di più sperare in atteggiamenti “amichevoli” da una Bce dove non siederà più Mario Draghi con il suo “whatever it takes”.
@pelosigerardo
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