Il New York Times ha rivelato che nel 2018 Apple passò a Donald Trump alcuni dati sul consigliere della Casa Bianca Donald McGahn e su sua moglie. E questa è solo la punta dell’iceberg...
Il New York Times ha rivelato che nel 2018 Apple passò a Donald Trump alcuni dati sul consigliere della Casa Bianca Donald McGahn e su sua moglie. E questa è solo la punta dell’iceberg…
Le malefatte dell’amministrazione Trump, e in particolare del suo Dipartimento di Giustizia, non smettono di stupire. L’ultima è quella rivelata dal New York Times nei giorni scorsi: nel febbraio 2018 Apple ricevette l’ordine di consegnare i dati del consigliere della casa Bianca Donald McGahn e di sua moglie (una subpoena, una richiesta non declinabile) e, alla scadenza dei tre anni durante i quali era vincolato alla segretezza, il colosso tecnologico ha provveduto a informare lo stesso ex collaboratore di Trump.
McGahn era l’avvocato della campagna Trump nel 2016 e ha testimoniato sia davanti al Congresso che agli investigatori guidati da Robert Mueller che indagavano sulla possibile collusione della campagna Trump con la Russia. Sei mesi dopo la richiesta dei registri telefonici, McGahn si dimise in contrasto con l’idea del Presidente di far deragliare l’indagine sostituendo Mueller con qualcuno di più affidabile. Quel braccio di ferro arrivò alle orecchie dei giornalisti e la notizia trovò spazio su Washington Post e New York Times. È possibile che il Presidente cercasse informazioni su chi e come avesse passato ai giornalisti le informazioni su una discussione avvenuta alla Casa Bianca. Fatto sta che quella notizia non conteneva informazioni secretate e che, dunque, non era uno di quei casi in cui di norma il Dipartimento di Giustizia indaga.
Le rivelazioni su McGahn sono solo le ultime di una serie recente e gettano una luce sinistra sulle operazioni del Dipartimento di Giustizia guidato nell’ordine da Jeff Sessions (poi caduto in disgrazia), William Barr e dal suo vice Rod Rosenstein, che aveva competenza sull’indagine di Mueller dopo che Barr si era ricusato.
Oltre a segnalare il fatto del tutto inusuale di un Presidente che fa controllare i propri collaboratori, la richiesta dei dati di McGhan segnala un nuovo aspetto della campagna trumpiana per ostacolare l’indagine di Mueller. Di fronte alla fuga di notizie, Trump aveva come obiettivo quello di individuare i whistleblower ed evidentemente non si fidava di nessuno.
Ma McGhan è solo la punta dell’iceberg perché nei giorni scorsi abbiamo anche saputo che tra le persone per le quali il Dipartimento di Giustizia ha fatto chiedere i registri telefonici ci sono diverse persone coinvolte nella commissione che conduceva l’indagine del Congresso che avrebbe portato alla richiesta di impeachment, compresi il Presidente, il rappresentante democratico Adam Schiff e il suo collega Eric Swalwell. Il Dipartimento ottenne anche i registri del personale che lavorava all’indagine di loro familiari, compreso un minorenne.
La raccolta dei registri telefonici di rappresentanti e dei loro collaboratori è un fatto quasi senza precedenti che i democratici hanno definito “spaventoso”. Un conto è dare la caccia a chi passa documenti o informazioni ai media o ad altre istituzioni, altro è indagare giornalisti ed eletti coinvolti. Il watchdog interno del Dipartimento di Giustizia ha aperto un’indagine e, a dire il vero, le prese di distanza da queste scelte fatte dall’amministrazione Trump non sono solo di democratici. La senatrice repubblicana del Maine Susan Collins ha detto di essere favorevole all’indagine, mentre il rappresentante del Texas McCaul ha spiegato che per spingersi così lontano “servono prove” e che gli ex procuratori generali Barr e Sessions dovrebbero testimoniare sulla questione. I due e Rosenstein hanno dichiarato di non sapere nulla della richiesta fatta ad Apple. I toni più forti sono venuti da Nancy Pelosi, che ha parlato di una vicenda peggiore di quella del Watergate.
La vicenda pone indirettamente e per l’ennesima volta la questione della quantità di dati che le Big Tech conservano nei loro server. Apple ha reso noto di aver ottenuto richieste per 73 numeri di telefono e 36 caselle di email e Microsoft ha pure rivelato di aver ricevuto richieste relative agli account di un membro dello staff di qualche rappresentante. Le richieste di registri e altri contenuti privati fatte dalle forze dell’ordine degli Stati Uniti sono migliaia al mese e molto spesso le Big Tech non sanno bene il perché della richiesta. L’esempio è proprio quello di McGahn: il portavoce dell’impresa di Cupertino ha spiegato che l’ordine prevedeva la segretezza (ovvero l’impossibilità di informare il soggetto interessato) e non esplicitava la ragione per la quale il Dipartimento di Giustizia intendesse ottenere i registri dell’ex avvocato della campagna Trump.
Il New York Times ha rivelato che nel 2018 Apple passò a Donald Trump alcuni dati sul consigliere della Casa Bianca Donald McGahn e su sua moglie. E questa è solo la punta dell’iceberg…
Le malefatte dell’amministrazione Trump, e in particolare del suo Dipartimento di Giustizia, non smettono di stupire. L’ultima è quella rivelata dal New York Times nei giorni scorsi: nel febbraio 2018 Apple ricevette l’ordine di consegnare i dati del consigliere della casa Bianca Donald McGahn e di sua moglie (una subpoena, una richiesta non declinabile) e, alla scadenza dei tre anni durante i quali era vincolato alla segretezza, il colosso tecnologico ha provveduto a informare lo stesso ex collaboratore di Trump.
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