Nei prossimi mesi le primarie saranno più importanti delle elezioni vere e proprie, perché da quelle consultazioni interne si capirà quale aspetto avranno i partiti dei prossimi mesi e anni
Pochi mesi ancora, e poi, a novembre ci saranno le elezioni di mid term. Pochi mesi ancora e poi, comunque andranno le cose, a guidare il Congresso non sarà più Nancy Pelosi.
Non sarà più lei per due ragioni. La prima, la più evidente, è che i dem potrebbero perdere il Congresso (i sondaggi, almeno per ora, sono piuttosto chiari in questo senso); la seconda è che, almeno in teoria, anche se vincessero i democratici, Pelosi potrebbe comunque decidere di passare la mano, non foss’altro che per questione di età (ha 81 anni).
Su quest’ultimo punto, ci sono voci piuttosto discordanti, perché benché Pelosi abbia detto più volte che non avrebbe fatto di nuovo la Speaker, in realtà, si è altrettante volte rimangiata la parola. Recentemente, poi, il Washington Post le ha chiesto se intendesse conservare il ruolo di Speaker in caso di vittoria o di leader della minoranza in caso di sconfitta, ma Pelosi ha rifiutato di commentare.
In realtà, la neghittosità di Pelosi circa il suo futuro non è faccenda da ascrivere solo alla vanità o alla difficoltà a lasciare il potere. È invece faccenda molto politica. La ragione è che prima di fare un passo di lato (comunque vada, Pelosi siederà al Congresso, dal momento che si ricandida per il suo collegio sicuro di San Francisco), Pelosi vuole guardare in faccia il Congresso e, soprattutto, il Partito democratico che uscirà dalle prossime elezioni di mid term e prima ancora, dalle primarie che si svolgeranno da qui alla prossima estate.
I democratici da una parte, i repubblicani dall’altra
Nei prossimi mesi infatti, le primarie saranno se possibile persino più importanti delle elezioni vere e proprie, perché sarà da quelle consultazioni interne che comprenderemo che aspetto avranno i partiti dei prossimi mesi e anni. La ragione è che entrambi i partiti americani, in questa fase, sono in una situazione speculare, e vivono, mutatis mutandis, la stessa situazione.
Sia tra repubblicani che tra democratici esiste una profonda spaccatura: da in lato ci sono i centristi, figli della vecchia tradizione novecentesca, convinti che le elezioni si vincano al centro, che l’elettorato non vada spaventato ma rassicurato, che la conciliazione tra le diverse anime dell’America possa essere trovata e, soprattutto, debba essere cercata; dall’altro lato ci sono i radicali, che si traducono in una fazione fortemente progressista, tra i dem, e in una fortemente trumpiana tra i repubblicani. A onor del vero, comparare democratici dem e repubblicani trumpiani non è del tutto onesto, perché se i progressisti alla Alexandria Ocasio-Cortez o alla Bernie Sanders sono radicali e spesso hanno toni accesi e fuori dalle righe, fondano comunque le loro posizioni su un principio di realtà e di verità. Si possono condividere o meno le loro analisi e proposte, le si possono trovare più o meno praticabili, sensate, eque o efficaci, ma non si possono definire lunari. Le posizioni dell’ala trumpiana dei repubblicani, invece, sono del tutto scollegate dalla realtà e dalla verità; anzi traggono forza dalla sua sistematica negazione, mistificazione, confusione; dal costante vilipendio dei criteri di verità e giustizia.
Nonostante questa fondamentale differenza, c’è però qualcosa che accomuna i democratici progressisti e i repubblicani trumpiani: la loro enorme capacità di mobilitazione degli elettori, il talento (che in America è raro e prezioso) di far uscire di casa le persone per andare a votare; la sapienza nel toccare le corde giuste dell’animo degli elettori, siano quelle dell’orgoglio o quelle della rabbia; la virtù di occupare, come un gas, tutto lo spazio di dibattito disponibile.
La ragione di questo successo è semplice e comprensibile: sia i progressisti che i trumpiani propongono un cambiamento, una rivoluzione, titillano la rabbia e la frustrazione degli ultimi, dei poveri, degli arrabbiati e degli oziosi (che spesso, per altro, sono molto di più di ultimi, poveri e arrabbiati).
Le fazioni centriste, incarnate da Pelosi e dal suo omologo repubblicano Mitch McConnell, invece propongono una versione aggiornata della solita vecchia formula di mediazioni, dialogo e concretezza. Una formula che probabilmente funziona, ma che difficilmente scalda i cuori e porta la gente a fare la fila alle urne.
Il successo, in entrambi i partiti, delle ali estreme porta a una specie di paradosso: i candidati che più hanno possibilità di vincere le primarie, sono quelli che hanno meno possibilità di vincere le elezioni. E viceversa, perché ogni volta che un candidato radicale si afferma, lascia scoperta una enorme fetta di elettorato che radicale non è e che dunque o sta a casa (come successo in Alabama nel 2017, dove la candidatura di un personaggio indigeribile persino per uno stato superrepubblicano come l’Alabama ha fatto sì che vincesse, a sorpresa, un candidato senatore democratico) o si rivolge altrove.
Il problema però è che, se in entrambi i partiti vincono candidati radicali, questo altrove potrebbe semplicemente non esistere.
La politica, infatti, non è un sistema perfetto. Non è governata dalle leggi della termodinamica. Non è in costante ricerca di equilibrio. Se lo fosse, ogni volta che uno dei due partiti si sposta all’estremo, l’altro, per forza di cose, si sposterebbe al centro. Ma con la politica non funziona così. Anzi, spesso, vale l’opposto. E polarizzazione chiama polarizzazione. Estremismo chiama estremismo. Lacerazione chiama lacerazione, con il risultato che nel prossimo Congresso potrebbero sedere soggetti che non solo non si piacciono, ma non si riconoscono nemmeno il reciproco diritto di esistere e non avrebbero la benché minima possibilità di arrivare a stringere accordi, paralizzando del tutto l’azione legislativa e il Governo di Joe Biden.
Le valutazioni di Nancy Pelosi
Per questo Pelosi si è ricandidata. Per questo tentenna nel dire cosa farà da grande. Non per vanagloria o, come diremmo (con grande volgarità) in Italia, per “attaccamento alla poltrona”. Perché prima di dire se sarà ancora leader o semplice deputata, vuole capire quale sarà il Partito democratico che esisterà da qui a pochi mesi. Se prevarrà la fazione centrista, potrebbe serenamente tornare a fare la deputata semplice, affidando il partito nelle mani del suo delfino, il newyorkese Hakeem Jeffries, centrista come lei. Se invece dovesse prevalere la fazione progressista (che Pelosi detesta cordialmente e di cui detesta soprattutto l’esponente superstar Ocasio-Cortez), Pelosi potrebbe voler guidare l’opposizione interna, presidiare il terreno centrista e fare da vigoroso e autorevole contrappeso a possibili sbandamenti a sinistra, che non solo lascerebbero senza voce la base centrista e moderata del partito, ma che lascerebbero anche scoperte le spalle del presidente Joe Biden.
Allo stesso modo, prima di lasciare il campo, Pelosi potrebbe voler vedere come andrà a finire la disfida tra trumpiani e centristi nel Partito repubblicano: se dovesse prevalere (cosa improbabile ma non da escludere) la fazione raziocinante che si riconosce (nonostante qualche mal di pancia) in Mitch McConnell, o in senatori centristi come Susan Collins, Mitt Romney e Lisa Murkowski, o nella deputata Liz Cheney, allora Pelosi potrebbe tirare un sospiro di sollievo e mollare la presa, convinta che comunque vada il Congresso sia in mani guidate dalla razionalità. Se invece dovesse prevalere (come sembra probabile, almeno per ora) la fazione più esaltata, quella dei cultori di Trump e della teoria della Big Lie, ossia del fatto che le ultime elezioni presidenziali siano state truccate, allora Pelosi potrebbe voler restare in prima linea, consapevole di avere una conoscenza della macchina dei regolamenti che in pochissimi anno e consapevole di avere un carisma e un autorevolezza che potrebbero essere capitali da spendere per guidare, anche dall’opposizione, il Congresso e mettere al sicuro la presidenza Biden.
La sua anali potrebbe non essere sbagliata. Per dire l’aria che tira, pochi giorni fa, Kevin McCarty, l’uomo che potrebbe diventare Speaker della Camera nel caso in cui i repubblicani tendenza Trump dovessero vincere primarie ed elezioni, ha partecipato a una trasmissione tv. Lì gli è stato chiesto “Cosa farà se diventerà Speaker e Nancy Pelosi le consegnerà il martelletto di inizio lavori?”. La sua risposta, ridanciana, è stata “Sarà difficile non darglielo in testa”. I social si sono scatenati per questa risposta inopportuna sotto mille punti di vista. Ma forse hanno perso di vista il punto vero: e cioè che probabilmente Nancy Pelosi preferirebbe farsi dare il martelletto in testa, piuttosto che affidarlo a McCarty.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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