Le analisi di politica estera si dividono: c’è chi ritiene che un conflitto tra Stati Uniti e Cina sia inevitabile e chi pensa che sia possibile individuare strumenti e meccanismi che evitino un’escalation
L’invasione dell’Ucraina e la visita (inopportuna) di Nancy Pelosi a Taiwan hanno contribuito a peggiorare lo stato delle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Alla radice di questo peggioramento sono l’ossessione/preoccupazione americana per l’ascesa cinese e la conseguente e inevitabile condivisione del ruolo di leader planetario, la crescente assertività di Pechino sotto la guida di Xi Jinping volta a dare alla Cina quel che considera il suo posto nel mondo. Non condannando l’invasione di un paese da parte russa, Pechino sceglie la strada dell’ambiguità, mentre gli Usa vedono nella guerra una finestra per ricostruire legami che stavano perdendo di significato e ridefinire la propria leadership di uno schieramento che si vorrebbe democratico e anti-autoritario. L’Ucraina diviene l’occasione per rilanciare la sfida e ridefinire o testare le alleanze.
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La visita di Pelosi e la retorica Usa su Taiwan sono schiaffi simbolici intollerabili sul terreno della One China Policy, l’ambiguo status quo che per decenni ha consentito a Pechino di immaginare la riunificazione come di là da venire e all’isola di condurre la propria vita indipendente. L’imponenza delle manovre militari seguite alla visita di Pelosi è forse un modo per segnalare che l’assertività, la cosiddetta “wolf warrior diplomacy” non è solo sugli account Twitter di alti funzionari della diplomazia cinese. Da parte americana sembra invece esserci un gioco di azione-reazione più che una strategia di lungo periodo.
Gli ultimi mesi non ci devono far dimenticare che la competizione sino-americana non è una novità. Entrambi i Paesi (purtroppo in buona compagnia) hanno speso massicciamente in armi: Pechino ha raddoppiato la sua spesa per la Difesa tra 2011 e 2020 (da 125 a 240 miliardi secondo il SIPRI) con nuovi investimenti nei due anni successivi; gli Usa continuano a essere di gran lunga il primo paese a investire nel proprio apparato militare-industriale e spendono circa tre volte la Cina − una sproporzione in parte mitigata da costi diversi. Negli anni di Trump, il Covid definito “Kung flu” e le tensioni commerciali non hanno favorito la creazione di luoghi formali di confronto. La repressione a Hong Kong ha fornito argomenti agli assertori di un atteggiamento fermo nei confronti di Pechino.
La reazione al contraccolpo da coronavirus − combinato con la disastrosa gestione trumpiana − è stata l’occasione per un’offensiva cinese uguale e contraria a quella americana su democrazia e diritti. La Cina di Xi Jinping propone l’alternativa di un modello di successo, stabile e privo degli intralci e le farraginosità del processo democratico. Secondo un’indagine condotta annualmente dal Pew Research Center, l’offensiva cinese (anche sui social media e a mezzo stampa) non ha migliorato il prestigio del Paese tra gli alleati degli Usa in Europa, Asia e Oceania. Il modo in cui si guarda alla Cina in Asia combina invece timori per lo strapotere di Pechino e consapevolezza della sua importanza come partner. “I Paesi asiatici non vogliono essere costretti a scegliere − scriveva nel 2020 il primo ministro di Singapore Lee Hsien Loong su Foreign Affairs. E se uno dei due tenterà di imporre una scelta del genere − se Washington cercherà di contenere la Cina o se Pechino cercherà di costruire una sfera d’influenza esclusiva − inizierà un percorso di confronto che durerà decenni”.
I posizionamenti ambigui sull’Ucraina di importanti attori e alleati di Washington come l’India, indicano un disagio crescente per l’ordine mondiale uscito dalla Guerra fredda che ha visto gli Usa come potenza egemone e poliziotto del mondo. I voltafaccia di Trump su nucleare iraniano e accordi di Parigi (per citarne solo due) hanno infine minato l’idea degli Usa come di un partner affidabile.
Parlando alla conferenza annuale del Boao Forum for Asia il Presidente Xi ha lanciato la Global Security Initiative (GSI) contrapponendo al disordine dell’attuale ordine, il cammino pacifico cinese. L’iniziativa politica di Xi è un passo nella direzione di dare una qualche forma politica (e non solo economica) al ruolo di Pechino nel mondo. Leggiamo nella sintesi ufficiale: “Lavorare insieme per mantenere la pace e la sicurezza nel mondo; mantenere l’impegno per il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i Paesi, sostenere la non ingerenza negli affari interni e rispettare le scelte indipendenti dei percorsi di sviluppo e dei sistemi sociali fatte dalle persone nei diversi Paesi; mantenere l’impegno per il rispetto degli scopi e dei principi della Carta dell’Onu, rifiutare la mentalità della Guerra Fredda, opporsi all’unilateralismo e dire no al confronto tra blocchi”. Il riferimento all’ulteriore allargamento della Nato, così come alle altre iniziative americane post invasione dell’Ucraina è tutt’altro che velato, ma le scelte cinesi in questa crisi contraddicono l’idea di “rispetto della sovranità territoriale”. La coerenza non è di casa né a Pechino, né a Washington, costretta per non perdere alleati preziosi a tornare sui suoi passi, ad esempio con l’Arabia Saudita di bin Salman.
Un conflitto inevitabile?
Gli establishment di politica estera si dividono, c’è chi ritiene che un conflitto sia inevitabile e chi pensa che sia possibile individuare strumenti e meccanismi che evitino escalation. Naturalmente c’è un prima e un dopo la guerra in Ucraina e una crisi come questa produce accelerazioni, genera scelte non riflettute. I timori di perdita di egemonia da parte americana e i sospetti cinesi che gli Usa spingano per il regime change, o comunque per limitare l’influenza cinese, non producono idee su come definire una nuova coesistenza pacifica.
L’ansia americana viene anche dal crescente peso cinese nelle quote di commercio mondiale che riguardano i beni manifatturieri e, sempre di più, anche beni ad alto contenuto tecnologico. La Cina non è più solo la “fabbrica del mondo”, ma un produttore di tecnologie avanzate dal mercato interno enorme: tra 2000 e 2020 la quota di tessile esportato è scesa del 9% e quella di beni elettronici cresciuta della stessa percentuale. A questo proposito qualcuno ricorderà la lunga discussione su Huawei e il 5G, un modo per contenere l’espansione cinese su quel terreno − giunta anche in Italia con l’esercizio del Golden Power da parte del Governo Conte 2.
Altri timori riguardano l’efficace esercizio del soft power cinese soprattutto in Africa. Pechino ha lavorato a creare una propria sfera di influenza − 153 miliardi di prestiti tra 2003 e 2019 e investimenti da 74,8 milioni di US$ nel 2003 a 5,4 miliardi nel 2018. Gli Usa inseguono: il Segretario di Stato Blinken ha visitato 9 Paesi del continente e organizzato un vertice Usa-Africa per dicembre.
Il Covid e il blocco del canale di Suez hanno introdotto il tema della deglobalizzazione e del decoupling per quanto riguarda settori e interessi strategici. Facile a dirsi, ma non a farsi. Se negli ultimi mesi il deficit commerciale complessivo americano è sceso, quello con la Cina continua a crescere (200 miliardi DI US$ nei primi sei mesi del 2022, contro 353 di tutto il 2021). Al netto delle guerre di tariffe, Stati Uniti e Cina sono più che legati tra loro da filiere produttive e scambi.
A oggi l’amministrazione Biden ha mantenuto un atteggiamento ambiguo e non ha eliminato i dazi introdotti da Trump. L’oscillazione dipende dal mancato rispetto cinese degli accordi presi con il suo predecessore − Pechino non compra più Made in US come promesso − ma anche da ragioni interne: i sindacati dell’industria sono favorevoli a quelle tariffe perché rendono meno ampio il gap di costo tra merci prodotte in Cina e negli Usa. L’inflazione che corre renderebbe però utile cancellare quelle tariffe per ridurre i costi al consumo di molti prodotti importati. Allo stesso modo, la necessità per le imprese cinesi di continuare ad essere quotate a Wall Street ha condotto ad un accordo di trasparenza con Washington.
Chi guarda al mondo con razionalità ripete spesso che i due colossi sono così legati tra loro che una serie di crisi continue sarebbero un disastro per entrambi. A impedire l’escalation sarebbe la razionalità. Si tratta di una lettura rassicurante e anche convincente, se non stessimo vivendo la crisi ucraina e le sue conseguenze economiche. I sospetti reciproci, le accelerazioni e i meccanismi quasi automatici di azione-reazione, la mancanza di una “road map” che individui tappe e sedi per un confronto tra Cina e Stati Uniti come invece è stato per la Guerra fredda, sono il contrario di scelte razionali e di lungo periodo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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