La logica multilaterale del commercio contribuisce dal 1947 a benessere e pace internazionali. Lo scenario globale è cambiato e nuove regole sono urgenti
La logica multilaterale del commercio contribuisce dal 1947 a benessere e pace internazionali. Lo scenario globale è cambiato e nuove regole sono urgenti
Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio Roberto Azevedo a Davos, Svizzera, 22 gennaio 2020. REUTERS/Jonathan Ernst
L’ultimo stallo (si fa per dire) alla Wto riguarda i pesci. Che nel mondo ne finiscano nelle reti troppi è più che noto. I Paesi aderenti alla World Trade Organization, dunque, si erano dati l’obiettivo di arrivare entro il dicembre del 2020 a un accordo che avrebbe indirettamente limitato l’overfishing. Non ci sono riusciti, riproveranno. Si trattava di concordare la fine dei sussidi che gli Stati danno alle flotte nazionali e che alimentano l’eccesso di pesca, soprattutto quella “illegale, non certificata, non regolata” che varia tra il 20 e il 50% di quella totale. Senza questi sussidi, soprattutto al carburante e alle imbarcazioni, più del 50% della pesca sarebbe in perdita e dunque non avverrebbe – ma in compenso negli anni i mari si ripopolerebbero e la quantità di pescabile aumenterebbe.
L’accordo entro il 2020 – che era uno dei goal per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite − non si è trovato, un po’ per le difficoltà di condurre negoziati durante la pandemia ma soprattutto per divergenze sulle limitazioni che molti Paesi sono disposti ad accettare. Non è stata una sorpresa. La fiducia tra le Nazioni sulle questioni commerciali non è alle stelle. E la massiccia sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sulle rive del Lago di Ginevra è diventata il monumento al fallimento della capacità di creare regole e al fallimento nel promuovere nuove liberalizzazioni degli scambi sin da quando è nata, nel 1995, erede del glorioso Gatt, il General Agreement on Tariffs and Trade che guidò l’apertura dei mercati dal 1947 al 1993 con otto round negoziali di successo.
La Wto e la questione commerciale possono sembrare poco sexy ma sono d’importanza straordinaria per l’economia globale. La libertà sempre maggiore degli scambi ha guidato la crescita dei decenni scorsi, ha dato il passo alla globalizzazione, ha permesso ai Paesi poveri di partecipare all’economia di quelli ricchi e di ridurre la povertà, ha creato le catene di fornitura e di creazione del valore che stanno alla base dell’efficienza di un gran numero di industrie. Dal 2009, dopo la grande crisi finanziaria, la crescita degli scambi ha però iniziato a rallentare e nel 2019, soprattutto a causa delle tariffe imposte da Donald Trump e della risposta data da Xi Jinping, il commercio globale è diminuito in termini di volume. Per il 2020, pandemia dilagante, la Wto stima una contrazione degli scambi mondiali superiore al 9%. Al di là della caduta causata dalla Covid-19, i problemi alla base del rallentamento degli scambi hanno origini economiche e soprattutto politiche: non spariranno con un vaccino.
La guerra commerciale Usa-Cina
L’offensiva lanciata da Trump con l’imposizione di tariffe sulle importazioni americane dalla Cina, e in misura minore da altri Paesi, è stata una decisione che ha messo sottosopra le logiche consolidate che stanno dietro agli scambi, che ha creato danni alla stessa economia degli Stati Uniti ma che è arrivata in una situazione già molto cambiata e deteriorata rispetto a uno o due decenni fa. Fondamentalmente, le regole che funzionavano nel mercato capitalista quando il mondo era diviso in due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, sono rimaste le stesse anche con l’entrata in esso di molti altri Paesi, soprattutto di una potenza commerciale come la Cina e in misura minore dell’India. Ora, il sistema è obsoleto, in due sensi: da una parte, Washington vede nel ruolo economico e commerciale di Pechino e nel suo uso delle regole in essere la minaccia alla supremazia della potenza americana; dall’altra, obiettivamente le regole non sono più adeguate, vista la natura dei nuovi arrivati al banchetto, ad esempio il capitalismo di Stato e di Partito cinese.
Quando si dice che la globalizzazione è in arretramento, si dice in sostanza questo, che l’ordine del passato non c’è più, che il mondo piatto senza frontiere è finito e al suo posto si torna a una forma nuova di competizione tra le grandi potenze, con le conseguenti barriere. A differenza che in passato, il commercio viene spesso usato più per dividere che per unire. E la pandemia ha accelerato questa tendenza e acuito gli scontri. Il coronavirus, ha detto Emmanuel Macron, “cambierà la natura della globalizzazione con la quale abbiamo vissuto negli scorsi quarant’anni”; essa è alla “fine del suo ciclo”
Il ruolo della geopolitica
È la geopolitica che cambia la natura del commercio globale. L’amministrazione Trump ha accusato la Cina di un rosario di scorrettezze commerciali: l’eccesso di capacità produttiva usata come base delle politiche di dumping, il trasferimento forzato di tecnologia per chi vuole entrare nel suo mercato, i sussidi alle sue imprese, l’attività delle aziende di Stato che operano su indicazioni del Partito Comunista, il furto di tecnologia, gli ostacoli all’ingresso per le multinazionali estere e infine il legame tra alcune imprese cinesi e l’apparato militare di Pechino che sta ad esempio alla base dell’ostracismo americano nei confronti di Huawei. A Washington si è convinti che Pechino usi il libero commercio a scopo di potenza.
Si tratta di accuse che negli Stati Uniti sono in buona misura condivise dal partito repubblicano e dal partito democratico e hanno paladini tra i membri individuati per fare parte del team di Governo di Joe Biden. La necessità di avere una strategia di confronto e non di acquiescenza verso la Cina trova un consenso bipartisan a Washington, pur con diversi approcci e con differenze più accentuate nel mondo industriale e a Wall Street. Molte di queste stesse accuse sono condivise nell’Unione europea, la quale ha definito la Cina un “rivale sistemico”.
Qui, però, si apre un capitolo che dovrà essere scritto nei prossimi mesi. La decisione della Ue, su forte spinta della presidenza semestrale tedesca, di concludere entro il 2020 un accordo commerciale con Pechino è destinata a sollevare onde sull’Atlantico con l’Amministrazione Biden. Proprio mentre si tratta di definire, tra alleati, un approccio comune verso Pechino, come ha proposto il presidente americano entrante, l’Europa decide di fare da sola, apparentemente attratta più dalle opportunità della massa eurasiatica che dall’Oceano Atlantico. Angela Merkel, d’altra parte, quando si viene alla Cina ha sempre privilegiato il business rispetto alla politica. In più, dopo la presidenza Trump e visti i 74 milioni di voti presi dal presidente americano uscente ancora lo scorso novembre, la Cancelliera tedesca sembra non fidarsi più di Washington e ritenersi più una mediatrice tra Occidente e Oriente che un’alleata degli Stati Uniti.
La crisi Covid
La situazione del commercio e degli affari globali è resa ancora più tesa dalla pandemia, la quale ha accelerato le tendenze alla separazione tra l’ambiente economico dominato dagli Stati Uniti e quello dominato dalla Cina. La questione del decoupling, del disaccoppiamento tra i due ambienti di business, è sul tavolo. Non è detto che ci si arrivi in termini formali: sia in America sia in Europa ci sono spinte forti affinché la questione cinese sia messa sul binario di una competizione su una serie di terreni e di una collaborazione su altri. E anche nel Partito comunista cinese l’idea di una nuova Guerra Fredda, con i due sistemi finora così integrati e improvvisamente non comunicanti, non è da tutti condivisa, al di là della linea dura imposta da Xi Jinping. Fatto sta che la sfida è in pieno svolgimento e per ora Pechino sembra in vantaggio.
Dal punto di vista strettamente commerciale, il ritiro deciso da Trump (ma condiviso da molti democratici, in testa Hillary Clinton) dalla Trans Pacific Partnership (Tpp), l’accordo sugli scambi nel bacino del Pacifico, ha indebolito gli Stati Uniti agli occhi dei suoi partner e dei suoi alleati in Asia. La recente firma della Rcep, la Regional Comprehensive Economic Partnership asiatica a cui partecipa Pechino, tra 15 economie asiatiche per creare una zona di scambi a regole comuni è inoltre un altro tassello di rapporti dai quali Washington è esclusa. Il timore dei vicini asiatici della Cina per la sua politica sempre più assertiva nella regione li tiene lontani da rapporti politici stretti ma per i Paesi dell’Asean e in generale dell’Asia gli scambi economici con il gigante cinese sono irrinunciabili. Riassumendo: nell’area economicamente più dinamica del mondo, le relazioni commerciali spesso contrastano con quelle politiche ma Pechino al momento ha il vantaggio di essere l’economia emergente e quest’anno tra le poche a crescere, sempre più attraente e capace di formare legami d’affari con i vicini. In più, l’accordo sugli investimenti Ue-Cina, raggiunto nelle ultime ore del 2020, è una vittoria politica di Xi nel confronto con la Casa Bianca, chiunque la abiti.
Possono essere nuove regole sugli scambi globali la strada per gestire senza troppe guerre commerciali le tensioni in aumento? Qui c’è una distanza crescente tra la teoria e la pratica. Il sistema degli scambi dovrebbe ruotare attorno alla clausola di Nazione più favorita, la base dell’apertura dei mercati nel dopoguerra. A parole piace a tutti. Significa che ogni Paese che sta nella Wto ha gli stessi trattamenti di quello che li ha migliori, in termini ad esempio di dazi e tariffe. È la logica multilaterale che ha portato benessere al mondo. E, secondo moltissimi studiosi e politici, ha anche dato un contributo fondamentale alla pace. In pratica, succede però che questo asse portante è saltato.
I free trade agreements
Da quando la Wto ha preso il posto del Gatt, nel 1995, non solo non ci sono stati più accordi di liberalizzazione dopo l’Uruguay Round del 1993, ma si è anche affermata, al posto della logica multilaterale, quella degli accordi bilaterali. I quali, in sé, spesso favoriscono i commerci tra chi li firma, ma sono selettivi, cioè aprono la porta tra due ma la chiudono ad altri. Ciò che facilita il commercio tra un Paese e l’altro o tra un blocco e l’altro diventa discriminatorio, molto o poco, verso chi resta fuori. Il moltiplicarsi di questi “free trade agreements” realizza un patchwork di accordi preferenziali, di regole diverse e di esclusioni che a un certo livello di sviluppo mina seriamente l’approccio multilaterale. Una cosa sono unioni commerciali o mercati unici tra vicini, come sono la Ue o il Nafta tra Usa, Canada e Messico. Un’altra sono ragnatele di accordi motivati dalle più diverse ragioni, non sempre solo economiche.
Nessuno ha evitato di seguire questa strada, con l’argomentazione che accordarsi con tutti è sempre più difficile. Nemmeno l’Unione europea. Anzi, la Ue ha sottoscritto 72 accordi commerciali con Paesi più piccoli al di fuori della logica multilaterale. Secondo il rappresentante commerciale dell’Amministrazione Trump, Robert Lighthizer, l’Europa ha così “resuscitato il sistema di preferenze coloniali che prevaleva nell’era pre-Gatt”. Per esempio, proteggendo all’estremo le indicazioni geografiche dei prodotti agricoli e alimentari. Ora, la retorica di Lighthizer eccede nella polemica, anche perché non parla il paladino della libertà dei commerci. Ciò nonostante, la questione degli scambi multilaterali è destinata a essere centrale nei prossimi anni.
Cosa può fare Biden
La presidenza Biden ha la possibilità di intervenire sulla Wto, al momento di fatto paralizzata. Che l’Organizzazione abbia bisogno di un reset è opinione condivisa da Usa, Europa e molti altri. A Ginevra, al momento, non solo non funziona il pilastro istituzionale di luogo per fare avanzare trattative di liberalizzazione e apertura degli scambi; è ferma anche l’altra ragione di esistenza della Wto, il panel di appello sulle dispute commerciali tra Paesi, dal momento che l’Amministrazione Trump ha bloccato il rinnovo dei giudici della Corte e ora manca il numero legale. Inoltre, Washington ha congelato la nomina del nuovo director-general della Wto, dopo le dimissioni di Roberto Azevêdo, lo scorso agosto, nonostante ci fosse il consenso dei membri sul nome della ex ministro delle Finanze della Nigeria Ngozi Okonjo-Iweala.
Biden potrà sbloccare la nomina della donna politica africana, potrà anche togliere il veto al funzionamento del corpo giudicante le dispute. Ma che la Wto debba essere riformata, nel senso di adeguarsi all’ingresso di Paesi come la Cina e l’India nei grandi scambi globali, rimane una necessità anche per la nuova amministrazione americana. Tra l’altro, condivisa dalla Ue. Il problema è capire come. Se rilanciando la logica multilaterale che beneficia tutti e che può imporre alla Cina comportamenti meno aggressivi. Oppure continuando sulla strada degli accordi bilaterali che, in epoca di competizione tra potenze, sono sempre più motivati dalla geopolitica e meno dal beneficio del libero scambio. In questo secondo caso, come si è già visto nel conflitto tra Trump e Xi, il commercio rischia di essere vieppiù “militarizzato”, usato a scopo di potenza. Nel qual caso, nemmeno per i pesci ci sarà più scampo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio 2021 di eastwest.
L’ultimo stallo (si fa per dire) alla Wto riguarda i pesci. Che nel mondo ne finiscano nelle reti troppi è più che noto. I Paesi aderenti alla World Trade Organization, dunque, si erano dati l’obiettivo di arrivare entro il dicembre del 2020 a un accordo che avrebbe indirettamente limitato l’overfishing. Non ci sono riusciti, riproveranno. Si trattava di concordare la fine dei sussidi che gli Stati danno alle flotte nazionali e che alimentano l’eccesso di pesca, soprattutto quella “illegale, non certificata, non regolata” che varia tra il 20 e il 50% di quella totale. Senza questi sussidi, soprattutto al carburante e alle imbarcazioni, più del 50% della pesca sarebbe in perdita e dunque non avverrebbe – ma in compenso negli anni i mari si ripopolerebbero e la quantità di pescabile aumenterebbe.
L’accordo entro il 2020 – che era uno dei goal per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite − non si è trovato, un po’ per le difficoltà di condurre negoziati durante la pandemia ma soprattutto per divergenze sulle limitazioni che molti Paesi sono disposti ad accettare. Non è stata una sorpresa. La fiducia tra le Nazioni sulle questioni commerciali non è alle stelle. E la massiccia sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sulle rive del Lago di Ginevra è diventata il monumento al fallimento della capacità di creare regole e al fallimento nel promuovere nuove liberalizzazioni degli scambi sin da quando è nata, nel 1995, erede del glorioso Gatt, il General Agreement on Tariffs and Trade che guidò l’apertura dei mercati dal 1947 al 1993 con otto round negoziali di successo.
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