La Fao sta raccogliendo fondi per un programma alimentare di emergenza: finora la Germania ha stanziato 40 milioni di euro e il Giappone 2 milioni di dollari
La situazione in Yemen è grave e continua a peggiorare. Come noto, la guerra in Yemen è scoppiata nel 2015 dopo che i ribelli sciiti Houthi rovesciarono il Governo di Abd Rabbuh Mansur Hadi, divenuto Presidente nel 2011 dopo le rivolte delle primavere arabe, e prendendo il controllo della capitale Sana’a. Da qui, con l’obiettivo di riportare al potere Hadi, l’Arabia Saudita, insieme a una coalizione di stati a maggioranza sunnita e con l’appoggio anche di potenze occidentali, ha iniziato una campagna aerea contro gli Houthi in favore delle forze governative yemenite e di altri gruppi armati locali che continuano a sostenere l’ex Governo di Sana’a. Ma il conflitto prosegue senza nessuna svolta decisiva e i ribelli Houthi, appoggiati anche dall’Iran e dal movimento sciita libanese Hezbollah, continuano a tenere la capitale Sana’a e controllano la maggior parte della zona nord-occidentale del Paese.
Dal 2015 ad oggi, secondo le stime delle Nazioni Unite, la guerra ha già provocato più di 19mila vittime civili e oltre 4 milioni di profughi, in quella che è considerata dalla Fao una delle più gravi, se non la più grave, crisi umanitaria del mondo.
Una situazione aggravata anche da avversità naturali come la siccità e le invasioni di cavallette. Una realtà che descritta così sembra quasi uno scenario da maledizione biblica, ma che è drammaticamente reale. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dalla Fao e dal World Food Program a fine marzo di quest’anno lo Yemen, insieme al Sud Sudan e alla Nigeria, è uno dei paesi dove è massimo il rischio legato all’insicurezza alimentare e con esso il pericolo di sfociare in una carestia ancora più grave di quella che è già in corso.
Attualmente oltre il 70% della popolazione yemenita vive in campagna, una situazione che generalmente costituisce un vantaggio per l’approvvigionamento alimentare in tempi di guerra. La popolazione rurale infatti ha maggiore facilità di procurarsi del cibo rispetto a quella urbana, dal momento che è in grado di produrlo, magari in un’ottica di mera autosussistenza e con risorse minime. Ma in Yemen la guerra sta riducendo drasticamente anche quelle risorse che in condizioni normali sarebbero di facile accesso, come i fertilizzanti o i fitofarmaci e soprattutto il carburante, che negli ultimi cinque anni ha visto un aumento dei prezzi tale da renderlo praticamente inaccessibile per la maggior parte della popolazione. E il carburante nella realtà agricola yemenita è importante non tanto per il funzionamento dei trattori, ma per il funzionamento delle pompe di irrigazione, fondamentali per garantire l’approvvigionamento idrico per le coltivazioni e per agli animali, in un Paese che anche senza particolari fenomeni di siccità o di riscaldamento climatico ha come limite principale la carenza d’acqua. Ad oggi, oltre l’85% degli agricoltori yemeniti non ha accesso al carburante per le pompe di irrigazione e quindi non ha accesso all’acqua, una condizione che ha già portato alla riduzione della produzione agricola di oltre il 50%. In più, la mancanza d’acqua fa aumentare drasticamente anche il rischio di epidemie di colera, che si vanno ad aggiungere alla pandemia da Covid-19, che ovviamente non ha risparmiato il Paese.
Non solo, anche produzioni agricole particolarmente redditizie del Paese, quelle che da noi chiameremmo produzioni di nicchia, stanno risentendo duramente della guerra in corso. Tra queste l’apicoltura, in particolare la produzione del miele di giuggiolo del deserto, nome scientifico Ziziphus spina-chrysti, che può raggiungere sul mercato regionale un prezzo di $500 al chilogrammo. Per produrlo gli apicoltori devono spostare gli alveari per seguire le fioriture della pianta. E in questo caso, oltre al costo del carburante, c’è il pericolo di muoversi in un paese in guerra e spesso di notte, perché le api devono essere spostate di notte, quando sono tutte dentro le arnie. E se anche gli apicoltori non trovano particolari difficoltà a passare i posti di blocco di qualsiasi delle parti in conflitto, quasi che le loro api valgano come un lasciapassare, resta il pericolo delle mine, dei combattimenti e dei tracciamenti dei droni, che vedono con sospetto questi movimenti notturni di camion o pick-up.
A tutto questo si aggiungono i problemi ordinari dell’agricoltura di questa regione, come le siccità più o meno ricorrenti e le invasioni delle cavallette. Un fenomeno quest’ultimo estremamente devastante, che può vedere sciami di oltre 150 milioni di insetti per chilometro quadrato capaci di distruggere in un solo giorno le risorse alimentari utili per 35mila persone, e che l’anno scorso ha colpito duramente sia lo Yemen che altri paesi del Corno d’Africa e della Penisola Arabica.
In più, come una spada di Damocle ecologica, resta la nave Safer, la petroliera ormeggiata al largo del porto di Ras Isa nel Mar Rosso dal 1998, che con il suo carico di oltre 1 milione di barili di greggio, in caso di incidente, causerebbe un disastro ambientale tale da comprendere tutta la costa yemenita e non solo. Un disastro, temuto da anni, che produrrebbe un impatto incalcolabile sull’ambiente e sulla pesca, un’altra fonte alimentare importante almeno per la popolazione costiera dello Yemen.
Per cercare di far fronte a questa situazione è in corso il programma Fao che si muove attualmente su due fronti principali. Il primo è la fornitura di pompe di irrigazione a energia solare – per bypassare il problema del reperimento del carburante – che però è fortemente ostacolata dal conflitto e dalla parziale o totale chiusura dei porti. Il secondo fronte è un piano di azione regionale per contrastare le invasioni di cavallette, che ha portato da gennaio dello scorso anno a trattare oltre 2 milioni di ettari tra Yemen e Corno d’Africa, salvando circa 4 milioni di tonnellate di cereali e 800 milioni di litri di latte, sufficienti per 34 milioni di persone per un anno. Il piano contro le cavallette sta sviluppando anche un sistema di monitoraggio e segnalazione informatizzato chiamato eLocust3, utilizzabile da un qualsiasi tablet. Questo sistema è in grado di raccogliere le segnalazioni fatte sul campo dai tecnici e condividerle con altri colleghi in tutta la regione, monitorando lo spostamento degli sciami e cercando di prevederne la direzione in modo da attuare misure preventive o prepararsi in tempo a effettuare trattamenti insetticidi. Un progetto che verrà implementato con un sistema di monitoraggio effettuato con droni in grado di sorvolare ampie zone di territorio e di individuare anche sciami a terra, e in prospettiva anche di effettuare trattamenti insetticidi mirati, in modo da avere una migliore capacità di monitoraggio e rendere più efficaci i trattamenti riducendone anche l’impatto ambientale.
Ma se la guerra va avanti, impedendo tra l’altro anche la distribuzione di aiuti alimentari, il rischio di una carestia su ampia scala diventa sempre più grande. Secondo le ultime stime della Fao, se le condizioni rimarranno come sono ora, le persone a rischio fame raggiungeranno o supereranno i 16 milioni, praticamente più della metà della popolazione del Paese. Per far fronte a questa situazione il programma di emergenza della Fao necessita di 90 milioni di dollari per il 2021, per venire incontro alle necessità di almeno 6,8 milioni di Yemeniti, quindi nemmeno di tutti quelli a rischio.
All’appello per ora hanno già risposto il Giappone, con oltre 2 milioni di dollari, e la Germania, con uno stanziamento di 40 milioni di euro, che dovranno però essere divisi anche per le emergenze di altri paesi come la Somalia e la Repubblica Democratica del Congo.
Ma il conflitto non sembra in via di risoluzione, anzi. Il piano di pace proposto dall’Arabia Saudita il 22 marzo scorso, che prevedeva inizialmente anche un cessate il fuoco con la riapertura di alcuni scali marittimi e aerei sotto la supervisione delle Nazioni Unite, è saltato e le notizie di scontri continuano a susseguirsi.
E intanto, i primi sciami di cavallette sono stati già segnalati in Kenya, un Paese non molto vicino, certo, ma nemmeno così lontano da non destare preoccupazione.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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