L'era Biden vuole restituire agli Stati Uniti il ruolo di player centrale nelle dinamiche internazionali. Vediamo cosa pensano le donne e gli uomini della sua Amministrazione
L’era Biden vuole restituire agli Stati Uniti il ruolo di player centrale nelle dinamiche internazionali. Vediamo cosa pensano le donne e gli uomini della sua Amministrazione
Nato, multilateralismo per affrontare le sfide globali e poi Russia, Cina e Medio Oriente. Di questo hanno parlato Joe Biden ed Emmanuel Macron nella prima telefonata tra il nuovo Presidente e un leader europeo. Gran voglia di collaborazione e la consapevolezza che su tutta una serie di questioni non ci sarà identità di vedute.
La politica estera recente degli Stati Uniti, prima potenza indiscussa per una ventina d’anni dopo il 1989, non è fatta di successi. Se con Obama gli Stati Uniti hanno in qualche modo gestito una perdita di centralità assoluta, commesso gravi errori e portato a casa dei risultati (Iran, Cuba, accordi di Parigi sul clima), con Trump la politica estera divenuta una somma di episodi e scambi.
Cosa succede adesso? La politica estera è fatta di progetti e di crisi imprevedibili. Sapere cosa pensano molti degli uomini e donne dell’amministrazione Biden per guidare la diplomazia e la strategia internazionale può essere utile a capire in quale direzioni si muoveranno gli Stati Uniti e come risponderanno a eventuali sorprese. La prima sottolineatura è che in articoli e apparizioni pubbliche, tutti i reduci dell’era Obama (Anthony Blinken, Samantha Power, William Burns, Jake Sullivan, rispettivamente Segretario di Stato, capo dell’agenzia di cooperazione USAID, direttore della CIA e National Security Advisor) sottolineano quanto il mondo sia cambiato rispetto al 2008, ma anche al 2016.
I saggi su Foreign Affairs
Su Foreign Affairs, Biden scrive come l’obiettivo sia “tornare alla guida” (del mondo). “La democrazia non è solo il fondamento della società americana. È anche la fonte del nostro potere. Rafforza e amplifica la nostra leadership per tenerci al sicuro nel mondo. (…) È il cuore di chi siamo e di come vediamo il mondo – e di come il mondo vede noi. Ci permette di auto-correggerci e di continuare a lottare per raggiungere i nostri ideali nel tempo”. Riparare al danno all’immagine fatto da Trump è dunque indispensabile per tornare a proporre l’America come modello in competizione con quello efficiente e illiberale proposto da Pechino.
In un saggio in cui discute due libri critici verso la politica estera liberale fatta di ideali e interventismo, di promozione della democrazia, intervento umanitario e nation building (Stephen Walt, The Hell of Good Intentions: America’s Foreign Policy Elite and the Decline of U.S. Primacy; John Mearsheimer, The Great Delusion: Liberal Dreams and International Realities), Jake Sullivan chiarisce alcune cose. La prima è scontata, ossia il grande tema per la politica estera Usa oggi è la competizione con la Cina. Si è passati da una volontà di integrare Pechino in un ordine mondiale sostanzialmente americano alla “competizione strategica”. Ovvero da una visione benigna – e forse un po’ ideologica: il capitalismo porterà riforme istituzionali – a una visione della Cina come un avversario. La complicazione sta nel fatto che su molte questioni occorre lavorare assieme a Pechino mentre allo stesso tempo si compete (anche con la Russia) sul modello proposto al mondo.
Sullivan sottolinea una novità nel clima a Washington, la convergenza tra sinistra del partito e i liberali: “un’elevata preoccupazione per gli effetti distributivi della politica economica internazionale, attenzione alla lotta contro la corruzione, la cleptocrazia e il neofascismo, un’enfasi sulla diplomazia rispetto all’uso della forza militare, un impegno duraturo verso gli alleati democratici”. Il legame tra effetti della politica estera e situazione interna torna spesso. Il tema della corruzione, della cleptocrazia è interessante perché riguarda molti Governi alleati degli Stati Uniti ed è di difficile declinazione. Il prossimo segretario di Stato Blinken è tra coloro che vollero sostenere le primavere arabe, che in fondo erano rivolte anche e molto contro Governi inamovibili e corrotti, e sarà interessante guardare come perseguire la volontà di “migliorare il mondo” senza contribuire a mettere in moto processi che finiscono con il produrre danni.
Il nuovo capo della CIA Burns, che è un diplomatico esperto e insiste sulla necessità di riforma dell’apparato diplomatico menomato dagli anni di Trump: abbiamo “prestato troppa poca attenzione a un panorama internazionale in rapido cambiamento in cui la competizione geopolitica con una Cina in ascesa e una Russia risorgente stava accelerando” e anche “trascurato ciò che stava accadendo a casa – le potenti tempeste della globalizzazione che avevano lasciato molte comunità e parti dell’economia sott’acqua e che presto avrebbero travolto gli argini politici degli Stati Uniti”. Torna il nesso tra politica interna e internazionale. Burns propone un forte rinnovamento negli obiettivi, nella concezione e nell’organizzazione della diplomazia americana a partire dalla necessità di prendere atto del potere ridimensionato senza ritirarsi dal mondo.
Samantha Power rilancia il tema della necessità per gli Stati Uniti di essere un esempio, nel senso della capacità di produrre risultati. Anche Obama, dopo gli anni disastrosi di Bush, tornò al multilateralismo e fece rimbalzare l’immagine del Paese, ma le azioni degli Stati Uniti toccarono il picco nella guida contro l’ebola, nell’accordo iraniano, con gli accordi di Parigi. Ovvero quando gli Usa contribuirono a produrre risultati. La maggior assertività della Cina ne ha peggiorato l’immagine nel mondo. Washington può mostrare di essere un partner e guida globale, ad esempio lavorando affinché il vaccinoCovid sia davvero disponibile a tutti – Power guida la cooperazione internazionale ed evidentemente si assegna questo compito.
L’era Biden, in sintesi, ha come obiettivo quello di restituire agli Stati Uniti il ruolo di player centrale nelle dinamiche planetarie con la consapevolezza che le sfide sono più complicate e c’è terreno da recuperare. Senza essere in grado di rilanciare il “modello” americano in casa, non c’è speranza di farlo nel mondo. Per le dittature o le semi democrazie è tutto molto più semplice.
L’era Biden vuole restituire agli Stati Uniti il ruolo di player centrale nelle dinamiche internazionali. Vediamo cosa pensano le donne e gli uomini della sua Amministrazione
Nato, multilateralismo per affrontare le sfide globali e poi Russia, Cina e Medio Oriente. Di questo hanno parlato Joe Biden ed Emmanuel Macron nella prima telefonata tra il nuovo Presidente e un leader europeo. Gran voglia di collaborazione e la consapevolezza che su tutta una serie di questioni non ci sarà identità di vedute.
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