Un cocktail di nazionalismo e odio etnico a cui si aggiunge la presenza di Mosca, Ankara e Teheran. Oggi la geografia del potere nel Caucaso meridionale è tutta da riscrivere
Trascorsi ormai otto mesi dal cessate-il-fuoco tra Armenia e Azerbaijan, le tensioni nel Caucaso meridionale non accennano a diminuire. Il difficile negoziato condotto dalla Russia di Putin lo scorso novembre, pur avendo portato alla cessazione delle ostilità, non ha risolto nessuno dei problemi alla base del conflitto. La questione dello status del Nagorno Karabakh è ancora aperta così come la disputa sui confini tra i due Paesi. Nella regione vige la legge del più forte e le schermaglie si susseguono lungo tutta la linea del fronte.
In questi mesi sconfinamenti di truppe azere sono stati denunciati più volte da Yerevan. A maggio la tensione è salita alle stelle quando le forze armate di Baku hanno violato i confini armeni nelle province di Syunik e Gegharkunik. Approfittando della disorganizzazione dell’esercito di Yerevan in questa fase, le truppe di Baku sono avanzate per circa 3 km in territorio armeno nella zona del lago vulcanico di Sev che divide i due Paesi. L’incidente avrebbe potuto tramutarsi in scontro aperto se solo l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) avesse dato seguito alle richieste di Yerevan. Invece, all’invocazione dell’articolo 2 da parte dell’Armenia che parla della necessità di consultazioni sulle minacce alla sicurezza di uno stato membro, non è seguita l’applicazione dell’articolo 4 che prevedrebbe mutua assistenza militare in caso di aggressione. Così facendo la CSTO ha confermato ancora una volta la sua incapacità di sviluppare e coordinare un’azione comune efficace. D’altronde, le posizioni sul Nagorno Karabakh all’interno della organizzazione sono differenti. Emblematico è il caso della Bielorussia la quale, da membro della CSTO e quindi alleata dell’Armenia, si è imposta come terzo paese esportatore di armi in Azerbaijan nel decennio 2011-2020.
La situazione oggi
Oggi la geografia del potere regionale nel Caucaso meridionale è tutta da riscrivere. Il dominio armeno che durava dal 1994 non esiste più ed è l’Azerbaijan anche grazie alla alleanza con la Turchia di Erdogan a farla da padrone mentre la Russia si cura di non perdere troppo terreno. In questo contesto, l’atteggiamento ostile mostrato dal regime di Aliyev negli ultimi mesi ci racconta come, per paradosso, una vittoria possa essere più complessa da gestire di una sconfitta. Lo scorso 12 aprile a Baku è stato inaugurato un parco per celebrare la vittoria di novembre. Definito “parco dei trofei” somiglia più a un “parco dell’umiliazione” dove manichini di soldati armeni dai tratti volutamente esagerati sono a disposizione di bambini e famiglie. A questo si aggiunge il mancato rilascio di tutti i prigionieri di guerra arrestati durante le sei settimane di operazioni militari lo scorso autunno.
La vittoria dell’Azerbaijan non sarebbe potuta avvenire non fosse stato per il sostegno turco che ora va ricompensato. In effetti, Erdogan garantendo appoggio militare e politico al regime di Aliyev ha facilitato, se non deciso, il successo sul campo. Nel 2020 l’export di sistemi d’arma da Ankara direzione Baku ha subito una forte impennata. Composto principalmente da droni – su tutti i famigerati Bayraktar TB2 – munizioni e lanciarazzi, l’export militare turco insieme a quello israeliano ha permesso all’Azerbaijan di raggiungere il livello di superiorità tecnologica utile a garantire un’offensiva rapida in grado di produrre una vittoria totale. La Turchia in cambio della lealtà e dei mezzi messi a disposizione sogna di ampliare la sua influenza su buona parte delle 5 repubbliche centro-asiatiche ossia Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan. L’idea di Ankara è quella di trovare nuovi mercati per il proprio export così da dare respiro a una bilancia commerciale in sofferenza a causa dell’ampio deficit delle partite correnti (circa 36,7 miliardi di dollari nel 2020) dovuto principalmente alle importazioni di energia e oro, all’elevato tasso di inflazione e al forte deprezzamento della lira.
In un recente viaggio nelle zone definite dagli azeri come “liberate”, Erdogan affiancato da Aliyev ha ribadito l’importanza dell’alleanza strategica tra i due Paesi e tra questi e il Pakistan. Inoltre, i due Presidenti hanno anche annunciato la chiusura di contratti vantaggiosi per le aziende turche le quali, insieme con quelle italiane, saranno impegnate nel processo di ricostruzione post-conflitto. Il fatto che l’Azerbaijan abbia sviluppato una certa superiorità tecnologica militare e che sia stato armato da un membro Nato come la Turchia non è certo passato inosservato a Mosca. La scelta del Cremlino di includere nell’accordo sul cessate il fuoco una presenza militare sul territorio di circa 2000 peacekeepers è stata fatta proprio per bilanciare il crescente ruolo della Turchia. Tuttavia, Mosca ha anche dovuto accettare la creazione di un centro di monitoraggio misto russo-turco sul cessate il fuoco nel Nagorno Karabakh. Se la Russia ha quindi intensificato la sua presenza sul terreno, la Turchia ha messo per la prima volta piede nella regione.
Le tensioni tra Armenia e Russia
Queste novità si intersecano con il clima di crescente distacco esistente tra Armenia e Russia e che perdura dall’arrivo del Primo Ministro Nikol Pashynian il quale ha gradualmente allontanato il suo principale (e unico) alleato regionale. Rieletto a fine giugno con il 54% dei consensi, Pashynian si troverà di fronte un paese spaccato e diviso anzitutto sul suo ruolo come guida dopo la tremenda sconfitta subita. Inoltre, proprio il Primo Ministro armeno, artefice dell’infruttuosa svolta “anti-russa” dovrà ripensare alla sua linea d’azione se vorrà avere una qualche garanzia di protezione in una regione che rischia di esplodere da un momento all’altro. Alla luce di ciò, nel futuro è immaginabile una Russia che svogliatamente continui a guardare le spalle a Yerevan ma solo in funzione anti-turca mentre, e qui andrà il grosso dello sforzo, cercherà di mantenere rapporti di buon vicinato con Baku. Candidato a divenire una potenza regionale in termini economici e militari, l’Azerbaijan è attore sempre più importante dal punto di vista energetico (come competitor) ed economico (come partner) per Mosca. Soprattutto, il regime di Aliyev può essere utile a chiudere la porta dell’Asia centrale in faccia ad Ankara.
Da parte sua Baku, ben consapevole del suo valore, cerca di estrarre il massimo da tutte queste relazioni senza mai scegliere in maniera chiara tra i due “blocchi” russo e turco. Insomma, se Russia e Turchia si dividono la posta in gioco, i grandi sconfitti di questa fase sono il Minsk Group dell’OSCE da un lato e l’Unione europea dall’altro che certificano la loro inefficacia in questo contesto. Spettatore interessato a quanto accade è poi l’Iran del neoeletto leader conservatore Ebrahim Raisi. Caratterizzato da una continua ricerca di equilibrio tra Baku e Yerevan, l’Iran teme principalmente che l’influenza turca si propaghi nell’Asia centrale. Per questo Teheran guarda con sospetto al progetto di sviluppo di un corridoio nella regione di Megri, fortemente osteggiato dagli armeni, che colleghi l’Azerbaijan alla sua exclave, il Nakhigevan, e da lì alla Turchia. L’Iran teme così di perdere influenza su Baku perché il completamento di questa infrastruttura farebbe venire meno la necessità, che persiste dagli anni ’90, di far passare merci azere indirizzate verso il Nakhigevan attraverso l’Iran stesso.
Un cocktail di nazionalismo e odio etnico renderebbe qualsiasi regione al mondo insicura. Tuttavia, se si aggiunge la presenza nella stessa area di Mosca, Ankara e Teheran si comprende bene perché il Caucaso meridionale è una polveriera e pensare che il cessate-il-fuoco di novembre perduri nel tempo sembra davvero una pia illusione.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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Un cocktail di nazionalismo e odio etnico a cui si aggiunge la presenza di Mosca, Ankara e Teheran. Oggi la geografia del potere nel Caucaso meridionale è tutta da riscrivere