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Patrick Zaki libero!


Il caso Zaki ci dà la possibilità di dare un senso al sacrificio di Giulio Regeni. La comunità delle democrazie occidentali ha una grave responsabilità sulle sue spalle

L’ascesa del Generale al-Sisi, salito al potere nel 2013 con un colpo di Stato e con la deposizione di Mohamed Morsi, racconta l'inglorioso tramonto della primavera araba egiziana e la grande sconfitta dei suoi giovani protagonisti.

Tutto ebbe inizio tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio del 2011, quando molti giovani iniziarono a protestare contro il regime di Hosni Mubarak, che per 30 anni aveva guidato il Paese. Bastarono 18 giorni ai rivoltosi di piazza Tahrir per cacciare il Presidente egiziano, a cui l’esercito aveva tolto il proprio appoggio: l’11 febbraio Mubarak rassegnò le dimissioni.

Il potere passò nelle mani dei militari, che promisero una transizione democratica e nuove elezioni.

Alle urne, gli egiziani premiarono i Fratelli Musulmani, un movimento politico-religioso duramente represso durante gli anni di Mubarak. Mohamed Morsi fu il primo Presidente della storia d’Egitto democraticamente eletto.

Sebbene la sua elezione avesse sollevato dubbi in tutto il mondo per il timore che un esponente chiave della Fratellanza musulmana potesse instaurare un regime di matrice religiosa, Mohamed Morsi rappresentò una speranza di democrazia. Il sogno democratico però si infranse presto: per il malgoverno, per la crisi economica e, naturalmente, per volontà dei vertici militari. Il 3 luglio del 2013 l’esercito egiziano destituì con la forza Morsi e mise fine all’esperienza di Governo dei Fratelli Musulmani. Fu il capo dell’esercito Abdel Fattah al-Sisi in televisione ad annunciare la sospensione della costituzione. Ad agosto dello stesso anno le forze di sicurezza egiziane sciolsero nella violenza tutte le manifestazioni di protesta a favore dell’ex Presidente, lasciando sulla piazza oltre 500 morti. La cifra del nuovo Governo al-Sisi sarebbe stata subito chiara. Inarrestabile da qui in poi l’ascesa del militare egiziano.

Nel 2014 al-Sisi ha vinto con il 90% dei voti un’elezione in cui meno del 50% degli elettori si è recata alle urne e dove le forze di opposizione erano inesistenti. Nel 2019 un referendum ha stabilito che al Governo al-Sisi può rimanerci a vita: estensione retroattiva dell’incarico da 4 a 6 anni, abolizione del limite dei due mandati e ampliamento dei poteri con un maggior controllo sulla magistratura. Lo stesso referendum ha poi concesso un maggior potere ai tribunali militari e reintrodotto il Ministero dell’Informazione, che avrà sostanzialmente il ruolo di controllare il dissenso interno. Secondo un recente report dell’Arab Network for Human Rights Information, su 120mila detenuti nelle carceri egiziane, 65mila sono giornalisti e cittadini che hanno manifestato la propria opposizione al Governo.

In dieci anni, il numero degli istituti carcerari in Egitto si è moltiplicato: da 43 che erano, oggi sono 78. Tra questi, c’è il famigerato carcere di Tora, nei pressi di Il Cairo, che ospita da 20 mesi Patrick Zaki, il giovane studente egiziano dell’Università di Bologna accusato di propaganda sovversiva.

Il Cairo Institute for Human Rights ha rivelato che ben 917 prigionieri hanno perso la vita a Tora tra il 2013 e il 2019. Di questi, 677 sono morti per non aver ricevuto cure mediche, 136 per le torture subite da parte degli agenti carcerari. L’Egyptian Commission for Rights and Freedoms ha documentato, tra il 2015 e il 2020, 2.723 casi di sparizioni di cittadini. Pratiche che avvengono nella completa impunità giudiziaria, come dimostra anche il caso dello studente italiano Giulio Regeni, torturato e ucciso dalle forze di sicurezza egiziane.

Nonostante gli abusi sistematici e la continua violazione dei diritti umani, l’Egitto è riuscito a uscire dall’isolamento internazionale. Il Cairo è un partner troppo importante per la stabilità mediorientale, per la lotta al terrorismo e per il contenimento dei flussi migratori. La diplomazia può e deve giocare un ruolo anche per condizionare scelte di politica interna. Ma forse, dovremmo imporci un limite: è difficilmente tollerabile da un’opinione pubblica sempre più attenta agli scenari internazionali e quindi più informata, che gli Stati europei, Italia inclusa, abbiano continuato nella vendita di armi e tecnologie al dittatore egiziano, ignorando anche le indicazioni del Parlamento europeo. Dalla recente relazione governativa annuale sull’export di armamenti italiani, esposta in Parlamento, è emerso che l’Egitto è il principale acquirente di armi prodotte dalle aziende militari italiane.

"Non abbiamo bisogno che nessuno ci dica che i nostri standard sui diritti umani comportano violazioni", ha ribadito il Presidente al-Sisi, parlando al vertice dei Paesi del gruppo di Visegrád a Budapest, sottolineando che l'Egitto non si piegherà ad alcun "diktat" europeo circa il rispetto dei diritti umani.

Non solo. Il Fondo monetario internazionale ha dato il semaforo verde a due prestiti, per un totale di 8 miliardi di dollari, e anche la Banca mondiale ha approvato un investimento sanitario da 50 milioni di dollari senza menzionare né condannare le persecuzioni degli operatori sanitari, incarcerati per aver criticato la risposta debole del Governo alla pandemia.

Nel 2020 gli Stati Uniti hanno rinnovato all'Egitto 1,3 miliardi di dollari in finanziamenti militari. La partnership tra Washington e Il Cairo è di lunga data e uno dei pilastri della politica estera americana in Medio Oriente. L’Egitto è stato per gli Usa un baluardo contro la penetrazione sovietica in Medio Oriente e in Africa orientale, nonché un avamposto strategico per la proiezione degli interessi statunitensi nel Golfo. In verità, Joe Biden ha definito più volte al-Sisi come il dittatore preferito da Trump, dichiarando che con la sua elezione sarebbe finito il tempo degli assegni in bianco verso l’Egitto. Il Congresso quest’anno ha infatti vincolato una parte dei finanziamenti (300 milioni di dollari) al rispetto dei diritti umani.

Due i commenti politici, in conclusione:

  • abbiamo purtroppo sperimentato che la Fratellanza Musulmana fatica a gestire il consenso democratico. Un fattore chiave del fallimento del Governo Morsi è stato infatti la mancanza di equilibrio che ha caratterizzato i pochi mesi al potere;
  • gli strappi continui verso l’imposizione di abitudini da società integralista islamica hanno reso invisa la nuova governance alla popolazione egiziana, fondamentalmente laica;
  • la comunità internazionale occidentale e democratica dovrebbe riflettere sulla sua reputazione valoriale. Se vogliamo riaffermare l’importanza delle nostre regole di convivenza, basate su principi di partecipazione democratica e di libertà di opinione, dobbiamo imporci dei limiti di comportamento nei confronti di quei dittatori che si sono macchiati di crimini efferati, come al-Sisi con Giulio Regeni o come MBS con Khashoggi. E se la concessione della cittadinanza italiana a Zaki può spingere il Governo egiziano a liberarlo, non esitiamo oltre e procediamo, facendo prevalere, almeno in casi come questo, in cui sono in ballo la vita e la morte, la politica sulla burocrazia.

 

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