Il premier ungherese abbina lucido pragmatismo all’utilizzo spregiudicato di posizionamenti ideologici, senza spingersi troppo oltre. Per esempio, non rischierebbe mai i fondi Ue, grazie ai quali cementa il suo potere
Venti anni di potere: tanti saranno alla scadenza del quarto mandato consecutivo appena ottenuto. Più di Angela Merkel, più di Xi Jinping. Un Paese ai suoi piedi, che gli consegna grandi maggioranze parlamentari, e che in cambio viene trasformato a sua immagine e somiglianza. “Il nostro trionfo è così grosso che si vede anche dalla Luna, quindi si vedrà bene anche da Bruxelles”, si beava Viktor Orbán alla fine dello spoglio, mentre scorreva le congratulazioni dei dirigenti nazional-populisti, dentro e fuori l’Europa. Cosa spiega il successo del premier ungherese, ormai punta di diamante di quell’internazionale sovranista aggregatasi negli ultimi anni, benché a capo di un Paese di neanche dieci milioni di abitanti? La sua abilità principale è nell’intrecciare un’instancabile politica di opposizione alle istituzioni europee e al liberalismo occidentale, con un’implacabile e pragmatica conquista e gestione del potere in Ungheria: dosando sapientemente l’una e l’altra, si è costruito una posizione blindata dalla quale appare impossibile scalzarlo.
I rapporti con la Russia e la Cina
Sul piano internazionale, il premier ungherese viene spesso associato a Vladimir Putin, di cui certo è un amico in Europa. Orbán ha condannato l’aggressione all’Ucraina, e ha pure accettato le pesanti sanzioni finanziarie europee. Se non si fosse allineato all’iniziale reazione occidentale, sarebbe stato l’unico nella Ue a non farlo: una posizione in cui una vecchia volpe come lui non si è certo fatto cogliere. Ma subito dopo, è tornato a disallinearsi; “Gli imperi d’Oriente sono il futuro” − ribadiva da tempo, riferendosi a Mosca, Pechino, Ankara. “Io vi proteggerò dalle follie dei partiti di opposizione che ci porteranno in guerra per la Nato”, ha detto agli ungheresi, che hanno apprezzato, e votato di conseguenza. “Abbiamo vinto anche contro Zelensky e la sua resistenza utile solo a compiacere gli Stati Uniti”, ha ribadito, negando persino l’evidenza del massacro di Bucha (“prove manipolate”). “Il gas lo paghiamo in rubli. E nessun’arma della Nato passerà dall’Ungheria”. Putin non poteva chiedere di più.
E con la Cina, rapporti “non ortodossi” e tutt’altro che simbolici vanno avanti da tempo. C’è stato l’acquisto di vaccini da Pechino al di fuori del piano immunitario europeo. E c’è l’accordo con l’università Fudan per costruire un campus alle porte di Budapest del valore di 1,5 miliardi di euro, quasi tutti capitali cinesi − mentre dalla capitale veniva espulsa la Central European University, fondata da George Soros e conosciuta per il suo insegnamento liberale nelle scienze sociali. Infine, a completare il quadro ideologico internazionale, c’è il solido ponte costruito con la destra americana di ispirazione religiosa e trumpiana. Tra i tanti che fanno la spola con Budapest, ad esempio alla conferenza internazionale sulla “sostituzione etnica”, l’ex vicepresidente Mike Pence, e un codazzo di editorialisti di Fox News, attivisti, predicatori, polemisti. Il 3 gennaio, Donald Trump twittava il suo auspicio di una riconferma di Orbán.
Una vittoria sulla società ungherese
A livello nazionale, quella di Orbán può definirsi una vittoria sulla società ungherese. L’Ungheria di trent’anni fa voleva “tornare in Europa”, smaniava per essere ammessa nella Nato, non voleva sentirsi “diversa”. Oggi non è più così. Orbán sa costruire e imporre l’agenda e conosce i suoi elettori. I media che controlla al 90% illustrano a spron battuto i vantaggi di un Paese “illiberale, conservatore e cristiano”. Chi non si allinea paga: centinaia di figure indipendenti tra cui giornalisti, attivisti, politici, editori sono stati spiati dal Governo. Quando durante gli Europei di calcio del 2021 negli stadi tedeschi furono esposte bandiere arcobaleno in protesta contro una legge omofoba passata a Budapest, i club del Paese, molti dei quali presieduti da politici di Fidesz, come il celebre Ferencvaros, risposero addobbando tutti gli stadi di bandiere ungheresi.
Tre mesi prima delle elezioni, poi, sono arrivati un sostanzioso aumento del salario minimo e il blocco dei prezzi degli alimentari di base. Orbán si presentava così: l’unico punto fermo nel quadro internazionale mutevole e spaventoso della guerra e della pandemia. Non a caso l’ultima vera vittoria dell’opposizione era arrivata nell’autunno del 2019, la conquista del municipio di Budapest. Ma l’operazione, ritentata alle politiche, non ha funzionato: mentre Orbán completava la trasformazione della sua ex liberale Fidesz in un partito-Stato, unico fornitore di identità culturale e protettore di interessi economici al di fuori della bolla di Budapest, anche grazie a molti anni di buoni risultati economici, i partiti di opposizione si perdevano tra le loro beghe lasciando il loro candidato unitario, Peter-Marky Zay, da solo a schiantarsi.
La vicinanza con la Polonia
Orbán ha vinto anche grazie al suo alleato in seno alla Ue: la Polonia guidata dal partito Diritto e Giustizia (PiS), che non ha mai fatto mistero di considerare l’Ungheria orbaniana un modello. Eppure, salta all’occhio un’immediata differenza. In Ungheria, è Orbán a guidare come un monarca assoluto lo Stato, e la cosa gli consente margini di manovra e discrezionalità. In Polonia, è invece la dimensione partitica a prevalere: gli uomini che controllano il potere sono diversi − c’è il Presidente della Repubblica Andrzej Duda, il capo del Governo Mateusz Morawiecki, il capo del partito Jaroslaw Kaczynski. Nel quadro di un partito populista nazionalista “pluricefalo”, l’importanza della dimensione ideologica cresce. Ne è prova il lungo braccio di ferro con Bruxelles sullo stato di diritto: lo scorso ottobre, dopo una serie di sentenze europee che condannavano il tentativo del governo polacco di mettere la museruola all’indipendenza dei giudici, la Corte costituzionale polacca ha negato la supremazia del diritto comunitario su quello nazionale, principio alla base dell’appartenenza alla Ue.
La decisione ha portato il conflitto al parossismo: “La corte polacca non è più imparziale”, ha dichiarato il Commissario Paolo Gentiloni, lanciando la procedura d’infrazione, e la multa di un milione di euro al giorno, finché i giudici della corte, politicamente fagocitata dal PiS fin dal suo arrivo al potere nel 2015, non saranno sospesi. “Siete come l’Urss”, ha reagito il premier Morawiecki: non paghiamo, la nostra corte non si tocca. E allora non avrete i soldi del Recovery Fund, ribattono dalla Ue. La solidarietà di Orbán a Varsavia è arrivata. Ma intanto, nello stesso periodo, la corte costituzionale ungherese rifiutava una simile interpretazione. Per Budapest, rinunciare ai fondi europei è fuori discussione − proprio con quelli Fidesz cementa il suo potere − ed è fuori discussione anche offrire un assist, un tema unificante, all’opposizione.
Invece, i partiti di opposizione polacchi, ben più vigili, ora guidati dall’ex Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, sono subito scesi sul piede di guerra, accusando il Governo di portare la Polonia fuori dall’Ue. Solo la guerra in Ucraina ha impedito la resa dei conti. Il comune, profondo sentimento anti-russo ha unito la politica polacca, a cominciare da due elementi cruciali: l’accoglienza dei milioni di rifugiati, e il transito delle armi Nato. Non solo: Varsavia è diventata lo snodo chiave, la base europea, del crescente sostegno americano a Kyiv. “Se non vede le prove dei crimini russi, Orbán vada dall’oculista”, ha dichiarato Kaczynski; davvero la massimalista Polonia è disposta a sacrificare persino l’asse con l’Ungheria?
Nel frattempo, per ritorsione alla procedura di infrazione, il Governo di Varsavia ha votato contro la decisione europea di tassazione comune sui profitti delle multinazionali − che senza l’unanimità degli Stati membri non può passare. Abbiate il coraggio di venirci contro adesso che non potete fare a meno di noi, sembrano dire da Varsavia. Intanto, la Corte di Giustizia Ue ha validato il dispositivo legale che condiziona il versamento dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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Venti anni di potere: tanti saranno alla scadenza del quarto mandato consecutivo appena ottenuto. Più di Angela Merkel, più di Xi Jinping. Un Paese ai suoi piedi, che gli consegna grandi maggioranze parlamentari, e che in cambio viene trasformato a sua immagine e somiglianza. “Il nostro trionfo è così grosso che si vede anche dalla Luna, quindi si vedrà bene anche da Bruxelles”, si beava Viktor Orbán alla fine dello spoglio, mentre scorreva le congratulazioni dei dirigenti nazional-populisti, dentro e fuori l’Europa. Cosa spiega il successo del premier ungherese, ormai punta di diamante di quell’internazionale sovranista aggregatasi negli ultimi anni, benché a capo di un Paese di neanche dieci milioni di abitanti? La sua abilità principale è nell’intrecciare un’instancabile politica di opposizione alle istituzioni europee e al liberalismo occidentale, con un’implacabile e pragmatica conquista e gestione del potere in Ungheria: dosando sapientemente l’una e l’altra, si è costruito una posizione blindata dalla quale appare impossibile scalzarlo.