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Afghanistan, cosa comporta il divieto della produzione di oppio


Da quando sono tornati al potere, i Talebani hanno reintrodotto il divieto di coltivare i papaveri da cui si ricava la sostanza stupefacente, sperando così che l'Occidente possa chiudere un occhio sulla mancanza dei diritti per le donne

È passato ormai un anno da quando, il 15 agosto 2021, i Talebani sono tornati al potere in Afghanistan. La rapida avanzata nel Paese, seguita al ritiro americano, si era conclusa con la riconquista di Kabul e il reinsediamento nella capitale, vent’anni dopo la prima volta. Da allora, il regime islamico ha fatto parlare di sé soprattutto per le questioni legate ai diritti umani e ai divieti imposti alle donne, da quello di guidare fino a quello di frequentare la scuola. Ma anche il dibattito legato alla produzione di oppio ha tenuto banco. Da quando sono tornati al potere, infatti, i Talebani hanno espresso la propria volontà di fermare la coltivazione dei papaveri da cui si ricava la sostanza stupefacente, riproponendo un divieto già applicato nel 2001. Ad aprile, alle loro parole è seguito un atto concreto: “La coltivazione di papaveri da oppio è stata severamente proibita – recita il decreto introdotto – e chi violerà la legge sarà punito secondo la Shari’a”.

L’attenzione che il mondo rivolge verso la produzione e il commercio di droga in Afghanistan non è per nulla sorprendente, se si guarda alle dimensione del fenomeno. Nel 2021 la coltivazione di papaveri, la raffinazione di oppiacei e il loro commercio hanno formato nel loro complesso un giro d’affari stimato tra 1,8 e 2,7 miliardi di dollari, spiega un rapporto delle Nazioni Unite. Numeri enormi, che rendono il settore degli oppiacei responsabile per circa il 10% del Pil del Paese. Sulla scena internazionale, l’Afghanistan non ha rivali nella produzione di questi stupefacenti: la quantità di oppio ricavata lo scorso anno rappresenta l’85% di quella prodotta a livello globale ed è sufficiente per ottenere 300 tonnellate di eroina pura.

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