Uno studio rivela come le compagnie petrolifere abbiano negato il cambiamento climatico e investito per produrre una ricerca scientifica che ridimensionasse gli allarmi degli ambientalisti
“Per dieci anni, gli americani hanno analizzato e denunciato le strategie dei gruppi americani per evitare e ritardare l’approvazione di regole ambientali. In Francia, abbiamo avuto la tendenza a considerare che i nostri campioni fossero più virtuosi di ExxonMobil. Il nostro studio rovescia la narrazione rassicurante che abbiamo costruito”.
Lo studio
Così dice a Le Monde Christophe Bonneuil, storico e ricercatore al Centre de recherches historiques (CNRS-EHESS), uno degli autori di uno studio che analizza i comportamenti del colosso francese degli idrocarburi, la Total, sesto gruppo petrolifero del pianeta e 25esima impresa per grandezza assoluta nella classifica Forbes (lo studio analizza anche il comportamento di Elf, impresa già di proprietà pubblica che si è fusa con Total nel 1999).
Lo studio è internazionale e coinvolge ricercatori francesi e americani e segnala come le strategie dei grandi gruppi che estraggono, raffinano e distribuiscono gli idrocarburi abbiano giocato tutti la stessa partita: negare il cambiamento climatico, investire per produrre campagne e ricerca scientifica che ridimensionassero gli allarmi degli ambientalisti e, solo alla fine, abbiano pubblicamente accettato l’idea che una crisi climatica sia in corso, ma poi lavorato per ridimensionare la portata delle riforme necessarie a invertire la rotta.
Da altre ricerche di archivio sappiamo che l’American Petroleum Institute aveva nozione dei rischi per il clima dell’uso dei combustibili fossili fin dagli anni ’50. All’epoca il ramo americano di Total era parte dell’API e aveva quindi accesso agli studi e alle informazioni in possesso di Exxon, Chevron e compagnia. La certezza che nel gruppo francese fosse a conoscenza dei rischi per la vita sul pianeta posti dal proprio campo di attività arriva nel 1971, quando in un articolo pubblicato nella rivista del gruppo distribuita ai dirigenti in 6mila copie si legge: “Questo aumento della concentrazione (di CO2) è abbastanza preoccupante […] l’anidride carbonica gioca un ruolo importante nell’equilibrio termico dell’atmosfera […] l’aria più ricca di anidride carbonica assorbe più radiazioni e si riscalda. È possibile, quindi, che un aumento della temperatura media dell’atmosfera sia da temere. Gli ordini di grandezza calcolati sono piccoli (da 1-1,5C°) ma potrebbero avere un impatto importante”. Le previsioni degli scienziati che scrivevano sulla rivista erano accurate.
L’articolo degli storici, che hanno avuto accesso agli archivi Total e condotto interviste con diversi ex dirigenti e dipendenti, segnala poi che negli stessi anni in cui l’articolo su Total Magazine veniva pubblicato le riviste scientifiche e le biblioteche cominciavano a contenere un corpus di dati e analisi sul cambiamento climatico difficile da ignorare.
Greenwashing
La prima reazione fu quella di minimizzare e raccontare gli ambientalisti come chi guarda al passato ed è incapace di immaginare il futuro. Ecco un passaggio di un articolo del magazine del 1975: “Presi nella trappola della nostalgia per un passato che non era così incontaminato come si presume… È la tecnologia e non i rimpianti che garantiranno o restituiranno una certa qualità all’ambiente”. A leggere queste righe c’è da sottolineare come in termini retorici la linea di difesa (o attacco) dei difensori del mondo così come è oggi non sia granché cambiata. Del resto negli stessi anni comincia quello che oggi chiamiamo greenwashing, ovvero la rappresentazione di sé da parte delle imprese che inquinano come imprese che hanno a cuore il destino del Pianeta. Continuiamo a citare dall’articolo, che riporta un’intervista a un ex dirigente della sezione “Ambiente” creata in quegli anni: “All’epoca […] le compagnie petrolifere erano malviste […], dovevamo far sapere che stavamo facendo qualcosa, […] così abbiamo messo l’etichetta ‘ambiente’ o ‘lotta contro l’inquinamento’ a quello che stavamo già facendo”.
E poi, naturalmente, anche lavoro per ridimensionare l’allarme: sì, c’è un certo riscaldamento, ma non avrà le conseguenze di cui si parla, o almeno non ne abbiamo la certezza. Per diversi anni la linea esplicita, ufficiale, fu questa: la scienza non è in grado di fare previsioni certe, l’idea che le temperature saliranno non è una certezza, così come non lo sono i modelli che prevedono catastrofi nel caso le temperature salissero davvero. Una linea condivisa e concertata con gli altri gruppi petroliferi. Un’altra strategia fu anche quella di gettare fango sugli scienziati dell’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, e sui loro rapporti allarmati.
Parallelamente e negli anni successivi, mentre le istituzioni politiche cominciavano a prevedere blande regole e misure per contrastare il cambiamento climatico si trattava di fare lobbying e premere affinché queste misure fossero respinte o venissero scritte in maniera tale da renderle innocue. Nei primi anni ’90 ad esempio l’industria petrolifera fece in modo di far deragliare l’ipotesi di una eco tassa europea promossa dalla Francia, ridimensionata dallo stesso Ministro dell’Economia francese Strauss-Khan, annacquata nel testo finale e infine messa da parte. “L’Economist descrisse la battaglia contro l’ecotassa come “la campagne di lobby più feroce mai vista a Bruxelles, mentre un rapporto interno del 1992 redatto da Francis Girault della Elf mostra come l’azienda avesse partecipato attivamente a quella sconfitta. Nel suo rapporto, Girault si rallegra del recente fallimento della tassa, accreditando le attività di lobbying svolta attraverso “contatti diretti segreti con i gabinetti ministeriali e le amministrazioni, sia in Francia (Primo Ministro, finanze, ambiente, ricerca, affari europei) che nella Comunità economica europea”.
La linea contemporanea è quella di presentarsi come un’impresa responsabile che investe in “energie”, ovvero in fonti diverse. È la linea che accomuna tutti i grandi gruppi, che non possono più negare la scienza del cambiamento climatico o finanziarne una contraria, come hanno fatto soprattutto i gruppi americani. Se e quanto si tratti di greenwashing lo vedremo presto. Certo è, come dimostra ad esempio l’opposizione del senatore della West Virginia Joe Manchin al pacchetto ambientale di Joe Biden negli Stati Uniti, o una certa retorica italiana sul “bagno di sangue” della riconversione ecologica o ancora le varie iniziative saudite che distribuiscono dollari a figure di spicco del panorama politico mondiale, che la capacità dei grandi colossi degli idrocarburi di influenzare la politica resta molto alta. E questo non è un bene.
Uno studio rivela come le compagnie petrolifere abbiano negato il cambiamento climatico e investito per produrre una ricerca scientifica che ridimensionasse gli allarmi degli ambientalisti
“Per dieci anni, gli americani hanno analizzato e denunciato le strategie dei gruppi americani per evitare e ritardare l’approvazione di regole ambientali. In Francia, abbiamo avuto la tendenza a considerare che i nostri campioni fossero più virtuosi di ExxonMobil. Il nostro studio rovescia la narrazione rassicurante che abbiamo costruito”.