La volontà Usa di riaprire all’Iran è stata colta da Riad, che ha bisogno di rilanciare la sua immagine e conservare l’amicizia con Washington
Interessi condivisi e divergenti, alleanza solida quanto instabile e poi tante armi e tanto petrolio. Quella tra Riad e Washington è un’alleanza strategica continuamente messa alla prova. Questa tensione continua la rivediamo in forma plastica nei primi mesi della presidenza Biden, che vorrebbe coniugare gli interessi geopolitici, economici e strategici con un ritorno alla promozione dei valori democratici e il rispetto dei diritti umani. Un equilibrio complicato da sostenere senza perdere la faccia, dimenticando la democrazia dopo averla promossa, o facendo infuriare qualche despota in un momento in cui la competizione per la primazia con la Cina e le tensioni con la Russia sono alle stelle. Un equilibrio tanto più delicato dopo i disastri fatti dagli Usa in nome della democrazia nei primi anni Duemila e l’abbandono di quei valori nelle relazioni internazionali da parte dell’amministrazione Trump. Ma quando parliamo delle relazioni con l’Arabia Saudita, avere in mente questa idea di politica estera, questa “dottrina Biden” è importante.
Il petrolio è il primo fattore che porta gli americani a sbarcare nella penisola araba poco dopo la nascita del regno nel 1932. La Standard Oil vinse una concessione per le trivellazioni nel 1933 e trovò i primi giacimenti cinque anni dopo. Negli anni la cooperazione petrolifera crebbe, prima Texaco, poi altri gruppi formano la Aramco (Arab American Company), cartello che viene definitivamente acquisito dal regno saudita nel 1980. Gli interessi petroliferi permangono nonostante il monopolio statale dell’estrazione di quella che oggi è la Saudi Aramco, che ha ancora quel Am(erica) nel nome.
Gli scambi non riguardano solo il petrolio: i sauditi comprano armi americane in gran quantità (90 miliardi dagli anni 50 a oggi) con un’impennata in un periodo recente, legato alla volontà di divenire potenza regionale, alla crescente rivalità sunnita-sciita e, naturalmente, alla guerra in Yemen. Tra 2010 e 2015 i trasferimenti di armi ammontavano in media a 3 miliardi l’anno, dopo l’avvio delle ostilità gli Usa hanno venduto oltre 64 miliardi di dollari di armi a Riad. Il Presidente Trump ha siglato una serie di contratti per gli anni a venire. Il Public Investment Fund saudita ha poi enormi interessi in imprese americane: due miliardi in Uber e, nell’anno della pandemia, anche acquisizioni per 713,7 milioni in Boeing, circa 520 in Citigroup, 522 in Facebook, 495 in Disney e 487,6 in Bank of America. Anche gli scambi culturali sono imponenti: i sauditi nelle università americane sono il 4° gruppo più grande di allievi stranieri. Ospitare figli di nababbi, sauditi, cinesi o ex sovietici è un bell’affare per le Università della Ivy League e simili.
La storia delle relazioni internazionali è meno piana. Il primo incontro tra i due Paesi avviene durante una serie di stop di Franklin Delano Roosevelt nel 1945 di ritorno da Yalta, quando incontrò re Farouk d’Egitto, l’imperatore Haile Selassie d’Etiopia e venne convinto da William A. Eddy, figura cruciale per la storia delle relazioni mediorientali degli States, a incontrare anche re Abdulaziz. Né allora, né poi i due Paesi stabilirono legami in maniera formale, Stati Uniti e Arabia Saudita non hanno un trattato di mutua difesa. Un’amicizia tormentata che si basa sul petrolio, prima, e sugli interessi strategici nella regione durante e dopo la Guerra fredda. Con frenate come la crisi petrolifera del 1973, generata dal boicottaggio arabo in reazione alla guerra del Kippur.
Con la caduta dello Shah in Iran e la fine della Guerra fredda i destini si intrecciano in forme diverse rispetto al Dopoguerra. L’indipendenza energetica raggiunta dagli Stati Uniti negli ultimi anni rende meno pressante dal punto di vista economico il legame con la penisola araba. Ma restano gli interessi strategici e i legami economici.
La rottura con Teheran rende Riad un alleato regionale (e un fornitore) più che necessario. Nel 1991 gli Usa chiesero e ottennero di passare nel territorio saudita per entrare in Kuwait, scelta che fece infuriare l’ala conservatrice del Paese, che mal tollerava il legame con l’Occidente, con cui pure si era collaborato per fermare l’occupazione sovietica in Afghanistan. Un anno dopo Osama bin Laden lasciava il Paese e dieci dopo, in conseguenza dell’attentato dell’11 settembre, i rapporti tra i due Paesi raggiungevano il punto più basso. Dopo il nuovo consenso dato obtorto collo all’uso della base di Al Kharj per la seconda guerra contro l’Iraq e la richiesta di rimuovere la presenza permanente in territorio saudita, gli americani si spostarono in Qatar.
Riad non gradì neppure le aperture obamiane a Teheran, il mancato coinvolgimento nei colloqui sul nucleare e la spinta alle primavere arabe.
Gli anni di Obama e del suo relativo disinteresse per il Medio Oriente e l’Europa, le primavere arabe e il ridisegno degli equilibri regionali (al quale stiamo ancora assistendo) e poi l’ascesa di Mohamed bin Salman (MBS) da un lato e quella di Trump dall’altro cambiano ancora le cose. Il principe della corona che ha spodestato il suo predecessore bin Nayef, un fautore del legame strategico con Washington, ha una storia di critiche nei confronti della politica estera Usa ma ha ottenuto il pieno sostegno di Obama all’intervento contro le milizie sciite Houti in Yemen − un sostegno che vide contrario l’attuale capo del Pentagono, all’epoca comandante americano nella regione. Con Trump il riavvicinamento e uno slittamento di una parte consistente degli arcinemici di Israele verso il riconoscimento dello Stato ebraico. Ma anche la copertura dell’omicidio di Jamal Khashoggi.
Veniamo a Biden, il difficile equilibrio tra alleanze con Paesi democratici o autoritari e la promozione e il sostegno ai diritti umani. Le azioni che la nuova amministrazione ha preso sono una rottura netta con la politica americana negli anni di Trump. Il repubblicano aveva nel genero Jared Kushner un plenipotenziario in Medio Oriente e questi, a sua volta, aveva un rapporto personale con MBS. Trump fece la sua prima visita ufficiale a Riad e invitò MBS alla Casa Bianca anche prima che questi divenisse principe della corona saudita. Biden ha invece scelto di fare la sua prima telefonata al re − e non al leader saudita de facto − ha rivisto la posizione sullo Yemen, sospendendo la cooperazione in materia di intelligence e la vendita di una parte delle armi da guerra − mentre scriviamo non è chiaro quante e quali. Il passo simbolico più importante è però la desecretazione del breve rapporto CIA che indica in MBS il mandante dell’efferata uccisione di Khashoggi. Nel colpire alcuni interessi sauditi, l’amministrazione Biden non ha però inteso arrivare al vertice: MBS non viene toccato dalle sanzioni. Non solo, Washington condanna con veemenza ogni attacco Houti e ribadisce l’amicizia e il sostegno a Riad. Per questo e per evitare di farsi soffiare un buon cliente dalla concorrenza non sospende del tutto la vendita di armi. Eppure il presidente era spesso stato critico dell’eccesso di reverenza nei confronti di Riad e aveva promesso di far pagare ai sauditi “il prezzo, e renderli di fatto il paria che sono” e non aveva usato parole gentili neppure per la famiglia reale saudita. Che calcolo c’è dietro a queste prese di posizione non del tutto lineari?
C’è innanzitutto il tentativo di ridimensionare l’impegno americano in Medio Oriente, ma senza ripetere gli errori di Obama, che disinteressandosi dell’area (e dell’Europa) ha lasciato un quadro instabile. C’è poi la volontà di riaprire canali con l’Iran, a partire dal nucleare, ma non solo: depotenziando quella minaccia e svolgendo un ruolo di mediazione tra sunniti e sciiti, molte delle tensioni mediorientali verrebbero ridimensionate. In queste settimane dall’Iraq giungono notizie di contatti tra Teheran e Riad (così come di contatti con Egitto e Giordania), segno che qualcosa si muove. Nonostante tutto, l’Arabia Saudita rimane l’interlocutore privilegiato nell’area e per come ha accentrato il potere nelle sue mani, MBS, è la persona con cui parlare a Riad: farselo nemico non sarebbe astuto, mentre avergli fatto pressioni può aiutare a rendere lo sceicco più collaborativo. Il Coronavirus ha danneggiato l’Arabia Saudita per varie ragioni (dalla domanda di petrolio in giù) e MBS ha anche subito un danno di immagine internazionale notevole. Un colpo grave per un quasi certo futuro sovrano con grandi ambizioni internazionali che ha eliminato tutti i suoi rivali e avversari. Avergli mandato un segnale chiaro senza avergli fatto pagare serie conseguenze può essere stata una scelta oculata: gli Stati Uniti hanno bisogno di buone relazioni con Riad, ma al contempo devono pretendere dal futuro sovrano qualcosa che non si limiti alle alleanze militari. La dottrina Biden chiede qualcosa di più in termini di diritti umani e volontà di negoziare. Sul secondo fronte, sembra di cogliere qualche novità (anche in Yemen), come a far capire che il messaggio è stato in parte recepito. In fondo, anche a bin Salman farà comodo essere amico di Washington. Chissà che abbia capito che per rimanere tale non si devono sciogliere gli oppositori nell’acido.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
La volontà Usa di riaprire all’Iran è stata colta da Riad, che ha bisogno di rilanciare la sua immagine e conservare l’amicizia con Washington
Interessi condivisi e divergenti, alleanza solida quanto instabile e poi tante armi e tanto petrolio. Quella tra Riad e Washington è un’alleanza strategica continuamente messa alla prova. Questa tensione continua la rivediamo in forma plastica nei primi mesi della presidenza Biden, che vorrebbe coniugare gli interessi geopolitici, economici e strategici con un ritorno alla promozione dei valori democratici e il rispetto dei diritti umani. Un equilibrio complicato da sostenere senza perdere la faccia, dimenticando la democrazia dopo averla promossa, o facendo infuriare qualche despota in un momento in cui la competizione per la primazia con la Cina e le tensioni con la Russia sono alle stelle. Un equilibrio tanto più delicato dopo i disastri fatti dagli Usa in nome della democrazia nei primi anni Duemila e l’abbandono di quei valori nelle relazioni internazionali da parte dell’amministrazione Trump. Ma quando parliamo delle relazioni con l’Arabia Saudita, avere in mente questa idea di politica estera, questa “dottrina Biden” è importante.
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